Fare memoria non significa contemplare la brace, ma alimentare la fiamma
La contesa del monumento
Anche Bedero ebbe i suoi Eroi e, in Loro ricordo, al centro dell’incrocio tra via Marconi, via Matteotti e via Onorato Borsotti, all’ideale ingresso della Piazza Principale, si erge il Monumento ai Caduti.
È una struttura molto caratteristica formata da grossi blocchi di pietra nera raccolti in località “Tarabàra”, che risaltano il contrasto con il bianco del leone che le sormonta, simbolo che rappresenta il coraggio e la fratellanza, di un bianco candido come la scritta incisa sulle pietre: “pauper pauperibus”.
Ingloba una fontana nella parte inferiore e, oltre il leone, svetta una pietra verticale sempre nera, su cui è riportato l’elenco dei Caduti, il tutto illuminato da una caratteristica lanternina rossa.
Il monumento fu eretto nel 1922, dopo la Grande Guerra e, successivamente, vennero aggiunti anche i nomi dei Caduti nella Seconda Guerra Mondiale.
Bedero Valcuvia
ai suoi Caduti:
1915-18
Sold. Martinoli Francesco Giacomo
Sold. Martinoli Carlo
Sold. Martinoli Mario Giuseppe
Sold. Martinoli Alessandro
Sold. Martinoli Donato
Sold. Martinoli Marco
Sold. Leoni Pietro
Sold. Zappatini Pietro
Sold. Franzetti Michele
Sold. Finardi Giovanni
1940-45
Cap. Borsotti Marino
Ten. Martinoli Elia
Sold. Tavelli Anselmo
Iscrizioni sul monumento
Sappiamo che l’ubicazione definitiva venne decisa il 24 novembre 1921, quando “…I capi famiglia, i combattenti, gli elettori, le madri e le vedove dei Caduti in guerra sono chiamati ad un referendum per la scelta del posto pel ricordo ai nostri eroici morti per la Patria. Votazione 27 c.m. dalle 10 alle 12…”.
Avviso per la votazione
Prima della definitiva inaugurazione, avvenuta il 30 aprile 1922, dovettero però intervenire anche il Prefetto e la Sottopretura di Varese. La scelta del luogo dove erigere il Monumento fu infatti molto travagliata, e dal 12 febbraio 1921, quando la popolazione fece una raccolta firme, al 7 settembre dello stesso anno, quando il Comune, ritenendo non autentiche le firme, istituì una Commissione composta da sei membri, tre a rappresentanza del Comune (Borsotti Innocente, Bordonetti Carlo, De Pari Capomastro Arcangelo sostituito poi da Pelloli Francesco), e tre della popolazione, di cui non sappiamo i nomi, le discordie e il malcontento generale colpirono il paese.
Progetto originale
Si arrivò addirittura a pensare che l’Amministrazione Comunale cercasse di
“…tirare in lungo le cose… per continuare l’ostilità che… ha sempre avuto contro il sorgere di un degno ricordo ai Caduti per la Patria…”, come riporta un documento firmato Giacomo Borsotti, Giovanni De Pari di Andrea, De Pari Giovanni fu Lorca e Bordonetti Carlo.
Non sappiamo se l’Amministrazione Comunale osteggiasse realmente la costruzione del Monumento, sappiamo invece dell’intenzione di costruirlo di fronte al Comune, nella piazza principale, e non dove invece voleva la popolazione.
Planimetria con le alternative A e B
Sembrerebbe dunque più plausibile immaginare che queste discordie nacquero principalmente per le divergenze di opinione sull’ubicazione finale del Monumento, e non sulla sua costruzione o meno. Resta il fatto che si dovette arrivare al referendum dove, ovviamente, la popolazione vinse, decidendo di erigere il Monumento dove ancora oggi possiamo ammirarlo, in sostituzione della fontana comunale.
3 novembre 2024, Camillo B.
Caduti: Guido Brenna, 40 anni
Nell’estate del 1918 è in corso l’ultima fase della guerra: si prepara l’offensiva decisiva. Bedero piange i suoi dieci Caduti, le famiglie aspettano con il fiato sospeso notizie dei loro cari al fronte.
Nel mese di luglio 1918, un soldato torna in licenza. Si chiama Guido Brenna, è nato a Milano, ma si è stabilito da qualche anno a Bedero, in Carbulat, con la moglie e due bambini: Virginia e Agostino, ricordati come Gina e Vustin.
Il piccolo è nato allo scoppio della guerra, all’epoca dei fatti non ha ancora tre anni; la sorellina ne ha otto. Guido è il sostegno della famiglia e ha sperato che quella cartolina di precetto non arrivasse mai. Ma infine è arrivata.
Per ampliare il fronte e rimpiazzare gli uomini persi in combattimento, il reclutamento è diventato sempre meno selettivo. Ora tocca anche a lui partire per la guerra.
Angela, la moglie, è una donna piccolissima, di bassa statura e di corporatura esile: una miniatura. In paese viene designata con il soprannome di dunéta, donnetta. Fa la sarta, ma la sarta dei poveri: specialista nello scambiare tra loro le maniche degli abiti comuni quando la stoffa si consuma ai gomiti, per farli resistere ancora un po’.
Quando il marito parte soldato, si ritrova da sola con due bimbi piccoli, uno ancora al seno. Facile immaginarsi la sua gioia nel vederlo tornare in licenza e la sua pena nel vederlo presto ripartire.
Ma la pena, nel giro di pochi giorni, si trasforma in disperazione.
Forse c’era l’ultimo fieno da ritirare, magari il bambino era malato… Per qualche motivo che non è dato sapere, Guido tarda a rientrare alla sua compagnia.
Questo ritardo gli costerà la vita: fucilato il 28 luglio 1918 come disertore, lascerà la sua famiglia negli stenti e la sua esistenza nell’oblio.
L’epiteto di disertore gli varrà il disonore, mentre la retorica ufficiale celebrerà come eroi gli altri dieci.
Quale tardiva ammenda, celebriamo il suo ricordo assieme a quello dei compagni. Tra loro, è il maggiore d’età. Alla morte sta per compiere i suoi quarant’anni. Tre mesi ancora, e la Grande Guerra avrà termine.
Appunti storici
La primavera del 1918 fu caratterizzata da un evento inatteso: in Russia, in cui nel 1917 la rivoluzione d'Ottobre aveva travolto le istituzioni, il nuovo governo guidato da Lenin decise di terminare la guerra, accettando gravose condizioni imposte da Austria e Germania. Fu così stipulato, nel marzo 1918, il Trattato di Brest-Litovsk.
L'abbandono della guerra da parte della Russia fu un colpo terribile per l'Intesa, perché a partire dalla primavera del 1918 i comandi austriaci e tedeschi fecero affluire dal fronte russo forze massicce, con l'obiettivo di scatenare un'offensiva vincente sia in Francia che in Italia.
Nel 1917 erano però entrati in guerra, a fianco dell'Intesa, gli Stati Uniti, che avevano iniziato a riversare aiuti in Europa, con tutto il loro potenziale economico e militare. Fu così che, a partire dalla tarda primavera del 1918, una forte offensiva austriaca, sostenuta da truppe tedesche, investì nuovamente territori italiani già straziati da annidi guerra. L'obiettivo degli austriaci, forti di una ragguardevole armata di oltre 900.00 uomini, era quello di sfondare le linee italiane e di raggiungere la pianura padana.
Gli italiani tuttavia, dopo Caporetto, avevano anch'essi ricostituito sia le scorte di armamenti che di vettovagliamenti e riorganizzato le forze dell'esercito, ora guidato da Armando Diaz, anche chiamando a combattere le giovanissime reclute del '99.
L'ultima grande battaglia della guerra (battaglia del Solstizio) fu combattuta nel giugno 1918, a partire dal passo del Tonale, estendendosi poi sull'altopiano di Asiago, sul Monte Grappa e, di nuovo, sul Piave.
Lo scontro fu violentissimo, ma gli italiani resistettero con tenacia e la tentata offensiva austriaca si tramutò in disfatta: tra morti, feriti e prigionieri gli austroungarici persero quasi 120.00 uomini. Ma anche il bilancio delle perdite italiane fu terribile, di all'incirca 90.000 uomini.
Fu a partire da quest'ultima battaglia che le sorti della guerra si capovolsero a favore dell'Italia. Il 24 ottobre il generale Diaz diede inizio ad una controffensiva che a Vittorio Veneto sfondò le linee avversarie, costringendo gli austriaci a ritirarsi su tutto il fronte.
Il 3 novembre 1918 furono liberate Trento e Trieste, il 4 novembre Diaz annunciò la vittoria. A Vienna l'imperatore Carlo abdicò e fu proclamata la repubblica.
Contemporaneamente cedette il fronte tedesco: a Berlino l'imperatore Guglielmo II dapprima si rifiutò di abdicare, ma l'ammutinamento della flotta (3 novembre) e una rivolta della popolazione di Berlino lo costrinsero a cedere ed a rifugiarsi in Olanda. L'11 novembre 1918 anche la Germania firmò la resa.
Finì così la terribile guerra, protrattasi in Europa per oltre 4 anni, con un bilancio di vite umane di poco inferiore ai dieci milioni di morti.
EPILOGO
Una riflessione sull'immagine con cui si è scelto di aprire l'articolo. Cosa c'entra con la nostra narrazione?
Il confine tra Italia e Slovenia è percorso dal fiume Isonzo, sul quale si sono combattute le più aspre battaglie della Grande Guerra e si è consumata la tragica disfatta di Caporetto. Gorizia e Nova Gorica si estendono sulle due rive opposte del fiume. Ora i due pezzi di città, quella italiana e quella slovena, assumono congiunte il ruolo di capitale europea della cultura per il 2025. L’artista Lorenzo Mattotti, autore del manifesto ufficiale riprodotto nell’immagine, ha immaginato una danza sul ponte che unisce le due metà.
Cent’anni fa quel confine e quella terra furono intrise del sangue di un’intera generazione di Europei. La speranza è che altre terre e altri confini riescano infine a trovare la pace.
1 novembre 2024, Laura e Maria Teresa V.
Caduti: Marco Martinoli, 22 anni
Fine Ottocento: alla famiglia di Marco è dedicata un’intera pagina dello Stato d’anime. Nella grande casa di Carbulat, il patriarca Gaetano e sua moglie Teresa sono morti da poco. Restano a vivere lì i due dei loro quattro figli, Prospero e Vittorio, con le rispettive famiglie. Gli altri due figli si sono stabiliti in Francia, ma hanno inviato a sostegno dei nonni due giovani uomini, Simone e Adriano, i rispettivi figli primogeniti. Così si usa, prima dell’assistenza sociale.
Un nugolo di bambini affolla le stanze: fratelli o cugini, fa poca differenza. In questo registro parrocchiale si contano già sette figli di Prospero, tra cui il nostro Marco, e cinque di Vittorio, ma altri ne nasceranno a breve. Ci si può immaginare il movimento: nelle stanze e nel portico, su e giù per le scale, nei rustici a rincorrere gli animali, al torrente a catturare i girini… E al richiamo serale, tutti dentro la grande cucina, attorno al tavolo, ciascuno con la sua ciotola di latte davanti alla polenta fumante.
Questa è la parte della famiglia che è in Italia. Dall’altra parte delle Alpi, in Provenza, ci sono altri fratelli, altri cugini. Fino ad ora è stato facile passare il confine: per cercar moglie di qua, per una stagione di lavoro di là, per venire in visita agli anziani genitori e poi valicare di nuovo per partecipare a una festa di matrimonio o di battesimo. Questa è una grande famiglia di emigranti, che affronta con serenità i traferimenti. Ha competenze professionali e linguistiche, punti di riferimento oltralpe, capacità di adattamento ai diversi contesti. Avanti e indietro, come rondini.
Con l’avvicinarsi della guerra, però, gli scambi si fanno più difficili.
Nel 1914, l’Italia è ancora neutrale, ma la Francia è già in guerra. La famiglia di Vittorio si è trasferita là definitivamente. Prospero è morto e la moglie Giovannina è rimasta sola nella grande casa con nove figli. Marco ha lasciato alle spalle l’infanzia, anche i più giovani di casa sono ormai adolescenti. Il fratello Innocente, il Centin, è in servizio di leva ed è il primo ad essere chiamato a combattere, allo scoppio della guerra, nel maggio del 1915. Poi parte Marco. Chissà se viene richiamato Giuseppe, se viene reclutato Gemolo… sono in quattro fratelli ad avere l’età giusta, solo Augusto è troppo giovane per la guerra.
Fino all’autunno 1917, l’ansia della mamma e delle sorelle viene placata da qualche cartolina che arriva dal fronte. I contenuti che passano alla censura sono più o meno sempre quelli: non preoccupatevi per me, la salute è buona e altrettanto spero di voi, spero che abbiate avuto un buon raccolto, tornerò presto.
Poi a fine ottobre c’è la battaglia di Caporetto. Una disfatta per l’esercito italiano: sul sanguinoso fronte del Carso, aspramente difeso per due anni, l’esercito austro-ungarico e tedesco sfondano le linee italiane e costringono interi corpi d’armata al ripiegamento fino al fiume Piave, a 150 km di distanza. La rotta comporta centinaia di migliaia di vittime, tra morti, feriti, prigionieri e sbandati, e un milione di civili sfollati.
I due fratelli sono coinvolti in pieno da questa vicenda. Marco viene fatto prigioniero, Innocente la scampa: sopravvive all’anno successivo, che vede la riscossa dell’esercito italiano, fino alla vittoria finale nella battaglia di Vittorio Veneto. È questo lo scenario in cui conosce la ragazza altoatesina, che diverrà sua moglie: nel dopoguerra si accaseranno là, nel bellunese.
La sorte di Marco, invece, si gioca nel campo di prigionia di Milovice: di lì a pochi mesi, il 13 febbraio 1918, vi muore, “di edema“ - così si evince dallo Stato d’anime.
Appunti storici
Il campo di Milovice era sorto nel 1914 in un ex poligono di tiro, nel cuore dell'allora impero austro-ungarico; oggi è Repubblica Ceca. Fu edificato per raccogliere prigionieri russi e serbi. Fu subito necessario ingrandirlo: accanto al primo, sorse un secondo campo, costituito da 100 baracche di legno, in ciascuna delle quali erano stipati dai 200 ai 300 uomini.
Dopo lo scoppio della guerra con l'Italia, ai prigionieri russi fu fatto costruire un terzo campo che, dopo lo sfondamento del fronte a Caporetto e la caduta in prigionia di quasi 300.000 soldati italiani, divenne affollatissimo. Un documento delle autorità austriache del campo di Milovice del febbraio 1918 segnalò la presenza di oltre 15.000 uomini, che esse stesse dichiararono ai superiori di non essere in condizioni di sfamare.
Il numero di prigionieri italiani deceduti a Milovice, sepolti nel vicino cimitero, risulta essere di 5.358 soldati, nella maggior parte morti nell'inverno tra il 1917 ed il 1918 di fame, di freddo, di stenti. Tra loro, il nostro Marco Martinoli.
Marco dovrebbe essere l'ultimo caduto della Grande Guerra, il decimo.
Invece ce n'è un altro, l'undicesimo. Condannato all'oblio.
Ricostruiremo anche la sua storia, attingendo alle poche informazioni disponibili. Appuntamento per venerdì, 1 novembre.
16 ottobre2024, Maria Teresa V., Laura V.
Caduti: Carlo Martinoli, 32 anni
Carlo è cresciuto a Bedero: un bambino giudizioso, bravo a scuola. È ancora piccolo quando perde entrambi i genitori e viene affidato agli zii. Cresce, impara a fare il muratore, poi diventa capomastro.
Il certificato degli Esami dell’Istruzione Elementare di Carlo, 1897
A trentadue anni, tra i compagni d’arme ventenni, è un uomo maturo: dei dieci caduti della Grande Guerra che compaiono sul monumento, è l’unico padre di famiglia.
Giacinta, Carlo e Giuseppino nel 1915
La foto lo ritrae accanto alla sua sposa, Giacinta, e al suo bambino Giuseppino, di quattro anni. Probabilmente è quella che si mette in tasca come ricordo quando parte per la guerra.
Lo Stato d’Anime descrive la famiglia di Carlo in quegli anni. Vivono tutti con la zia Giuseppa, capofamiglia. È la mamma adottiva di Carlo e zia acquisita due volte: una prima, quando suo zio paterno l’ha sposata; una seconda, quando lui stesso ne ha sposato la nipote.
La zia Giuseppa, infatti, è la vedova dello zio Apùleo, morto di recente. Viene da Ghirla e lo zio, due volte vedovo, l’ha sposata in terze nozze. L’unico figlio della coppia, emigrato in Francia, è morto. Gli zii hanno preso in casa il nipotino Carlo, orfano, e lo hanno allevato come fosse un figlio. All’età giusta, gli vengono presentate le sette sorelle di Ghirla, nipoti della zia Giuseppa: le frequenta, si innamora della più bella, la sposa
Le sei sorelle, che sopravviveranno per mezzo secolo a Giacinta-la-bella, diranno per tutta la vita che quella sorella, in quel momento, è stata toccata dalla sfortuna…
I primi anni di matrimonio sono sereni, allietati dalla nascita di Giuseppino.
Giuseppino nel 1916
Ma la malasorte è in agguato. Prima lo scoppio della guerra e la partenza di Carlo per il fronte, nel 1915. Poi, all’inizio del 1917, la morte della zia Giuseppa.
La giovane madre è sola e cerca appoggio e conforto a Ghirla, dai suoi genitori e dalle sue sorelle.
Giacinta, con il figlio, le sorelle e i genitori, nel giorno di Natale 1917
Nel dicembre 1917 sta celebrando il Natale con loro, la foto li ritrae proprio in quella occasione. Proprio durante la festa, poco dopo lo scatto, la raggiunge la ferale notizia: il marito Carlo è morto a Enego, sull’altopiano di Asiago.
Alla memoria
Qui finiscono le vicende di Carlo, ma inizia la parte più tribolata della storia di Giacinta e del suo bambino.
La donna, che cerca un modo onesto per sbarcare il lunario, viene più volte ingannata, molestata, derubata, ricattata. Giuseppino cresce, è un adolescente: vorrebbe aiutare e proteggere la madre, fa del suo meglio. Ma la madre esausta si ammala e muore. Di certo era in preda alla depressione; si dice in giro che sia morta di consunzione, forse di tisi.
Giuseppino diciassettenne è affranto, oppresso da un senso di ingiustizia e sommerso dai debiti. Vorrebbe vendicare i torti, si ribella. Entra in campo un altro zio, Stefano, che gli dà una mano a trovare la sua strada nel mondo.
Giuseppino, che in paese tutti ricordano come Pepinett, sarà un uno mite e giusto, capace di riflessioni profonde sulla vita e la società (abbiamo pubblicato un anno fa il suo intenso diario di un POW, prigioniero di guerra, ancora disponibile nell’archivio 2023), che si adopererà con grande senso civico per lo sviluppo sociale del paese. Avrà però per tutta la sua vita dei momenti di ombra e di sconforto, pensando alle prevaricazioni subite nei primi anni della sua vita.
Giuseppino, Pepinett, con due sorelle della madre, ormai anziane
Carlo viene tumulato nel cimitero di Enego prima, poi trasferito nel sacrario di Asiago, dove tutt’ora si trova la sua sepoltura, onorata negli anni dalla visita dei discendenti, dagli amici, degli ex combattenti e degli alpini di Bedero.
La sepoltura di carlo nel Sacrario di Asiago
Il figlio Pepinett volle dedicare al padre il viaggio di nozze e, nel 1935, si recò sull’altipiano di Asiago in pellegrinaggio con la sua amata Carolina. Era in corso di realizzazione il Sacrario, che venne ultimato l’anno successivo.
Una cartolina dal sacrario di Asiago del 1952
Appunti storici
Nell'ottobre 1917 gli austriaci lanciarono una nuova grande offensiva sull'Isonzo, mediante la tecnica dell'infiltrazione di reparti speciali, e le linee italiane cedettero. Nella disastrosa ritirata di Caporetto che seguì, i soldati italiani, allo sbando, arretrarono fino al Piave.
La sconfitta fu davvero enorme, tanto da entrare nel vocabolario quotidiano come sinonimo di disastro. Con perdite spaventose: 12 mila morti, 30 mila feriti, 300 mila prigionieri, 350 mila sbandati. E ancora migliaia di cannoni e centinaia di tonnellate di materiali distrutti o catturati. Soprattutto 14 mila chilometri quadrati di terra veneta e friulana, con un milione e mezzo di civili, furono abbandonati per un anno alle vessazioni del nemico.
Incline ad attribuire ogni insuccesso militare al disfattismo e alla mancanza di disciplina dei soldati, il generale Cadorna, che aveva assunto atteggiamenti di grande severità e durezza nei loro confronti, venne rimosso dall'incarico e sostituito dal generale Armando Diaz, che cercò di riorganizzare le unità italiane e di costruire una nuova linea difensiva, fermando lo slancio offensivo degli austriaci.
Nel novembre 1917 gli austriaci attaccarono anche sull'altopiano di Asiago, costringendo gli italiani, che pure si batterono duramente, ad un parziale ripiegamento. La lotta si svolse per tutto il dicembre 1917 in condizioni spaventose, con temperature bassissime, sottozero, al punto che un gran numero di feriti finì assiderato.
È qui, sull' altipiano di Asiago, che morì in combattimento il 23 dicembre 1917 Carlo Martinoli, di 32 anni, soldato del 34° fanteria e cinque giorni dopo, in un luogo poco distante, in Valle Lagarina, Mario Giuseppe Martinoli, 25 anni, soldato della terza compagnia automobilisti, in un incidente: “infortunio per fatto di guerra”. Ne abbiamo potuto leggere le lettere inviate alla famiglia, e vedere qualche sua fotografia, gelosamente custodita dai suoi discendenti, nell‘articolo pubblicato all’inizio di gennaio 2024, quello che ha dato inizio alla serie di commemorazioni dei Caduti di Bedero.
Il ricordo dei nostri Caduti e gli appunti di storia che contestualizzano le loro vicende continuano: appuntamento ad ottobre.
6 settembre, Giacinta M., Maria Teresa V., Laura V.
Caduti: Alessandro Martinoli, 18 anni
L’anno 1916 si concluse. Fu ricordato come un anno funesto: tra settembre e dicembre erano caduti cinque ragazzi del paese. Dall'inizio del conflitto, sei: Pietro infatti li aveva preceduti, morto in battaglia nel luglio del 1915, a guerra appena iniziata. Ma il lugubre conteggio non era terminato.
Ci si inoltra nel 1917. Per le famiglie dei soldati, i mesi scorrono lenti e angosciosi. Ed ecco, nel febbraio 1917, una brutta notizia: la chiamata di leva per i ragazzi nati nel ’99.
Come tanti suoi coscritti, Alessandro si prepara a partire soldato quando non ha ancora compiuto i diciott'anni. Questi giovanissimi ragazzi devono prima essere istruiti, solo in seguito verranno inviati al fronte.
Alessandro non termina l’addestramento, perché muore nell’estate in un poligono di tiro, non lontano da casa: una pallottola vagante lo colpisce alla testa. Nella cartolina commemorativa compare con abiti civili e con un fluente ciuffo pettinato a lato. Non ha fatto nemmeno in tempo a farsi ritrarre con la divisa del guerriero.
La mamma e la sorella Teresa hanno l'amaro privilegio di accoglierne le spoglie e di vederlo seppellire nel cimitero di Bedero con cerimonia solenne.
Dall’archivio parrocchiale:
Morte: Premeno 23 agosto 1917 prov. Novara, circ. Pallanza. La sua salma fu trasportata a Bedero Valcuvia il 16 ottobre 1917 accompagnata da 11 soldati ed il giorno seguente gli furono fatti i funerali con 7 preti e seppellito nel cimitero di Bedero Valcuvia alle ore 11 con tutti gli onori, militari, civili e religiosi.
Appunti storici
Nel 1917, la guerra sul fronte alpino proseguì, sempre più violenta, fino all'estate del 1917, senza significativi avanzamenti tattici per entrambe le parti, mentre si facevano sempre più forti le condizioni di sofferenza e di disagio dei soldati, in entrambi gli schieramenti. A fronte delle gravi perdite umane subite, leve sempre più giovani vennero richiamate al fronte. Questo è lo scenario in cui inizia la vicenda dei ragazzi del ’99. Nel 1918, essi daranno un contributo decisivo nelle fasi finali della guerra.
Il 1° febbraio 1917 fu pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il Decreto n. 112, che stabiliva che le operazioni di leva sui giovani nati nell’anno 1899 saranno iniziate nel corrente anno 1917. La visita di leva fu effettuata nella seconda metà di febbraio per circa 80.000 ragazzi nati nel primo quadrimestre del 1899 e nella seconda metà di maggio per tutti gli altri 180.000.
Dopo l’arruolamento, furono inquadrati in compagnie separate, presso battaglioni di milizia territoriale, dove avrebbero atteso l’ordine di partenza per i centri di mobilitazione, per proseguire l’addestramento. Infine, le reclute avrebbero raggiunto al fronte i reggimenti ai quali erano state assegnate.
Nel frattempo, a partire dall’inizio di maggio del 1917, fu inviato in prima linea la riserva composta dai soldati della classe 1898, composta di 185.000 uomini. Le reclute servivano soprattutto a costituire le nuove unità create nel 1917 e non soltanto a coprire i vuoti provocati dai combattimenti e dal logoramento generale: quei 185.000 diciannovenni erano ancora in gran parte vivi, in quel momento. Le operazioni belliche - la decima offensiva dell’Isonzo e la battaglia dell’Ortigara, in maggio/giugno - esaurirono la riserva già alla data del 15 giugno 1917.
E così, al principio di agosto del 1917, cominciò ad essere impiegata la classe 1899. I primi diciottenni che raggiunsero il fronte presero parte sia all’11a offensiva dell’Isonzo che ai combattimenti del ripiegamento dall’Isonzo al Piave, diversamente da quanto diffusamente si crede, e cioè che siano stati chiamati in prima linea soltanto dopo la rotta di Caporetto (qui la fonte utilizzata).
Per la maggior parte, però, nell'estate del 1917, i ragazzi del ’99 vennero assegnati alle retrovie e solo a novembre, dopo Caporetto, furono spediti tutti quanti sul fronte, nella zona del Piave, tra Grappa e Montello, dove si trovarono pienamente coinvolti nei combattimenti.
E la corsa al reclutamento dei giovanissimi non era ancora finita. All’inizio del 1918, precisamente il 10 febbraio 1918, il Decreto n. 132 autorizzava l’inizio delle operazioni per la leva sui giovani nati nel 1900.
Il manifesto di chiamata alle armi, affisso in tutte le città, stabiliva che nessuna recluta della classe del 1900 può ottenere, per qualsiasi motivo, la dispensa dalla chiamata alle armi o l’esonerazione temporanea dal servizio militare. Le visite di leva e la presentazione ai distretti avvennero in marzo. Questi ragazzini erano tutti ai corpi nella seconda metà del 1918, quando la guerra volgeva alla sua fase finale, sebbene impiegati nelle retrovie.
I ragazzi del ’99 dettero invece un contributo decisivo, diventando, assieme ai veterani, i protagonisti della decisiva battaglia di Vittorio Veneto, che portò alla resa dell’esercito austro-ungarico e alla fine della Grande Guerra.
Essendo mobilitate nell’ultimo anno di guerra le classi dal 1874 al 1900, vi furono numerosi casi di padri sotto le armi contemporaneamente ai figli.
Il ricordo dei nostri Caduti e gli appunti di storia che contestualizzano le loro vicende continuano: appuntamento al primo venerdì del prossimo mese, settembre.
2 agosto, Laura V.
Caduti: Giovanni Finardi, 23 anni
O viventi che uscite
se non vi sentite più sereno
e più gagliardo l’animo
voi sarete qui venuti invano
O viventi che uscite
se per voi non duri non cresca
la gloria della Patria
noi saremo morti invano
Sono le parole incise sulle lapidi poste nel sacrario di Redipuglia, dove riposa Giovanni.
Ci interrogano.
Animo gagliardo?
Gloria della Patria?
Giovanni è morto invano?
Di certo è morto dimenticato.
Non c’è una famiglia che lo pianga, non c’è una comunità che avverta il vuoto che ha lasciato. Solo una cartolina commemorativa con il suo viso bellissimo e un nome sul monumento del leone. Ma ogni volta che lo si cita, aleggia il dubbio. Ma siamo sicuri? È un nostro caduto?
Negli archivi del Ministero della difesa ci sono tre Giovanni Finardi, quasi coetanei, tutti lombardi. Ma nessuno è originario delle nostre parti.
Natalina, la nostra quasi centenaria memoria storica, ci ha aiutati con il vago ricordo di una zia che, nella sua infanzia degli anni ‘20, le aveva raccontato che era morto in guerra un garzone di stalla degli Ossola, una famiglia abbiente del paese.
Agli inizi del Novecento, questa era l'abitazione della famiglia Ossola
Ed ecco che, sulla scorta di questo indizio, una ricerca d’archivio ha rinvenuto una piccola traccia nel Registro delle Anime del primo ‘900, che consente di scoprire l’identità di questo ragazzo.
E ci coglie in fallo. Perché la sua morte - la cui data peraltro è dubbia, poiché non coincide sulle due fonti consultate - precede quella di due caduti, di cui abbiamo già pubblicato la memoria: Giacomo Martinoli e Pietro Leoni.
Dobbiamo tornare indietro, riavvolgere il filo fino all’autunno del 1916, tornare sul Carso, dove è morto a fine settembre Giuseppe Franzetti. Proprio lì muore Giovanni. Secondo il Ministero della Difesa, un paio di settimane dopo, il 13 ottobre 1916. Secondo lo Stato delle Anime, il 28 ottobre.
Cosa sappiamo di lui? Pochissimo. È orfano di padre e di madre. Ancora ragazzo, arriva da Milano per alloggiare presso la famiglia degli Ossola. Viene censito con la famiglia come “addetto”. Era d’uso registrare nello Stato delle Anime anche i domestici che vivevano in casa. Come lui che, se la memoria di Natalina non inganna, badava agli animali.
Giunge in età di leva, parte per la guerra e muore. Non ha una famiglia che ne conservi la memoria e nel paese si perdono presto le sue tracce. Rischiavamo di perderlo anche noi.
È uno dei centomila caduti che giacciono nel sacrario di Redipuglia.
Appunti storici
Non resta che rimandare a quanto già scritto sul contesto in cui ha trovato la morte Michele Franzetti. Anche Giovanni era lì. Come Giuseppe Ungaretti, del resto. Diamo di nuovo voce al soldato poeta, che dà la sua testimonianza viva e sofferta.
Veglia
Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita
Abbiamo pubblicato la storia di questo Caduto in edizione straordinaria. Vogliamo fare ammenda per averlo lasciato indietro, non avendo avuto fin qui certezza della sua identità.
Il ricordo dei nostri Caduti e gli appunti di storia che contestualizzano le loro vicende continuano: appuntamento al primo venerdì del prossimo mese, agosto.
12 luglio, Laura V.
Caduti: Pietro Leoni, 21 anni
Caterina è una donna sfortunata: è rimasta due volte vedova e ha dovuto tirare grandi da sola i due figli, la femmina che ha avuta dal primo marito e il maschio dal secondo. Lavora in campagna, alla giornata. Adesso che i figli sono cresciuti, potrebbe forse tirare un po’ il fiato… Macché.
Scoppia la guerra, il ragazzo parte soldato: non tornerà.
Pietro Leoni muore sul monte Le Tofane nel dicembre 1916, travolto da una valanga.
Caterina piange i suoi uomini, abbracciata alla figlia Fiorinda.
Restituire un’identità a questo giovane non è stato semplice. Porta un cognome diverso da quello della madre e della sorella, che gli sono sopravvissute. Inoltre nella scheda del Ministero della Difesa gli viene assegnata una paternità (fu Pasquale) che è diversa da quella registrata sui registri parrocchiali (fu Francesco) e sul foglio matricolare del Comune.
La coincidenza degli altri dati anagrafici e la comunicazione del reclutamento, rinvenuta casualmente, ha consentito di concludere con certezza che si tratta proprio del figlio di secondo letto di Caterina, fratello di Fiorinda, della quale ancora si conserva memoria in paese, poiché gestiva una mescita ai piedi della salita del Carbulat, attiva ancora negli anni ‘50.
Appunti storici
L'inverno tra il 1916 ed il 1917 fu rigido e crudele. Sul fronte dolomitico, le tormente di neve si succedettero per settimane e settimane, causando valanghe che travolgevano i baraccamenti come fossero di cartapesta, tutto ingioiando e distruggendo.
Il Monte Le Tofane fu parzialmente conquistato dagli italiani nel 1915, ma conservava una piazzaforte pesantemente fortificata dagli austriaci, il cosiddetto Castelletto.
All'inizio del 1916 cominciò una nuova fase degli scontri, la cosiddetta “guerra di mine”. Erano stati per primi gli austriaci, nel gennaio del 1916, a porre sotto le postazioni italiane una carica esplosiva da 3.000 kg. Gli italiani replicarono nel luglio, con una potente mina da 3.500 kg di esplosivo, che causò il crollo di interi pezzi della montagna.
La mina sul Castelletto
Le terribili valanghe dell'inverno successivo, quello tra il 1916 ed il 1917, che uccisero migliaia di uomini di entrambi gli schieramenti, sono probabilmente correlate anche a queste azioni distruttive: l'opera della natura fu resa ancora più funesta da quella degli uomini.
Soldati in marcia sul Monte Le Tofane
È questo lo scenario di guerra in cui, il 13 dicembre 1916, Pietro Leoni, di 21 anni, soldato del 1° reggimento artiglieria di montagna, perse la vita, travolto da una valanga.
5 luglio 2024, Laura e Maria Teresa V.
Il ricordo dei nostri Caduti e gli appunti di storia che contestualizzano le loro vicende continuano: appuntamento al primo venerdì del prossimo mese, agosto.
Asilo Margherita
Continua la ricerca storica negli archivi dell'asilo e pian piano riemergono notizie sui primi anni di esercizio: per vedere i documenti originali, visita la pagina dedicata
Norme igieniche - Nel 1898, per frequentare l'asilo era d'obbligo avere i capelli corti. Vi fu un contenzioso con una famiglia: si decise di sospendere il provvedimento del taglio obbligatorio solo a fronte dell'impegno a ritirare la bambina, tempo un mese.
Saggio finale - L'anno scolastico iniziava ottobre e finiva al settembre successivo, senza interruzione estiva. Un periodo di vacanze era previsto invece a gennaio. A settembre, mese conclusivo, i notabili e i benefattori del paese e del circondario assistevano al saggio, che doveva dimostrare le abilità raggiunte dai bambini, grazie allo sforzo educativo dell'istituzione.
Entrate - L'attività dell'asilo era sostenuta economicamente in primo luogo dalla rendita del capitale iniziale, quelle famose 6000 lire ottenute dall'ospedale Maggiore di Milano per la "cessione dei diritti del bosco Martica". Per inciso: questo risultato richiede un certo sforzo, visto che la trattativa durò tre anni, impegnando gli emissari del comune in viaggi continui tra Bedero, Varese, Milano e Como, con significative spese.
La seconda voce di entrata, per importanza, e costituita dalle rette dei bambini, molto numerosi: a volte arrivavano ad essere trentacinque.
Terza voce, a sorpresa, sono i funerali: i bambini vi partecipavano, formando una sorta di picchetto d'onore, a maggiore onore del defunto. E la famiglia, grata, elargiva una generosa offerta in memoria. La consuetudine si è protratta fino agli anni sessanta.
Uscite - La prima voce di spesa, per importanza, era lo stipendio della maestra. La seconda era per la legna da ardere. Non si fa accenno a spese per generi alimentari. Se ne deduce che i bimbi portavano il loro cibo da casa. Anche le spese amministrative avevano il loro peso.
Ma ciò che più colpisce il valore è molto alto degli oggetti: per esempio, un grembiule costava 1,5 lire; molla e barnaccio, strumenti per regolare il fuoco, complessivamente 2 lire. Si confronti con la retta mensile per bambino, che era di 0,5 lire. Questo confronto ci aiuta a capire l'attitudine dei nostri vecchi al riciclo e al riuso.
Intitolazione - Nel 1900, il 29 di luglio, il re d'Italia Umberto I morì un attentato a Brescia. Un mese dopo, la Congregazione di Carità, che gestiva l'asilo di Bedero, decise di intitolare l'asilo alla regina consorte, Margherita "in ricordo dell'amato re".
Ancora nel 1927, quando era già avvenuto il trasferimento nella nuova sede ed era stata avviata la procedura per cambiare il profilo istituzionale, il nostro viene citato in alcuni documenti come asilo “Margherita".
La leggenda dice che, qualche anno prima, anche una pizza fu dedicata alla regina… La pizza "Margherita", quella c’è ancora!
14 giugno 2024, Laura V.
Caduti: Giacomo Martinoli, 26 anni
Ma lei che lo amava
aspettava il ritorno
d'un soldato vivo,
d'un eroe morto
che ne farà?
da La ballata dell’eroe – Fabrizio de André, 1966
Nel 1914, Giacomo compariva in un elenco di persone assenti dal paese. Accanto al suo nome, e a quello di altri sei, c’è la scritta “soldato”.
Tra i dieci caduti della Prima Guerra Mondiale, è l’unico con il grado di caporale; gli altri nove sono soldati semplici. È possibile che il grado gli derivi dall’avere avuto un maggior addestramento militare, dal momento che stava svolgendo il servizio di leva, o la ferma, al momento della mobilitazione.
Quando parte per la guerra, Giacomo è fidanzato con Lucia, una ragazza del paese che ha un anno meno di lui e che abita in piazza. Anche il fratello Attilio, di poco più giovane, è in età di leva.
L’abitazione della sua famiglia è in Carbunisc, vicini di casa della famiglia di Donato Martinoli, morto il mese scorso, a settembre del 1916. Adesso è ottobre, e di nuovo il cortile e il vicolo sono parati a lutto. Questa volta è toccata a Giacomo.
Lucia è affranta. Inutilmente le quattro sorelle cercano di consolarne il pianto. Si affaccia alla soglia di casa e guarda verso la fontana, dove lo vedeva comparire quando si davano appuntamento. In quello stesso punto, tra pochi anni, sorgerà il monumento ai caduti.
Appunti storici
Il Monte Pasubio è una delle più insanguinate montagne della Prima guerra mondiale.
Teatro dei combattimenti fin dal maggio 1915, era diventato lo scenario di scontri furiosi tra italiani e austriaci a partire dalla primavera 1916, quando iniziò la Strafexpedition, o spedizione punitiva, da parte degli austriaci. Si avvicendavano assalti e contrassalti su un complesso sistema montuoso, con diverse cime rocciose, cenge e precipizi.
Nel maggio del 1916 gli austriaci tentarono un’avanzata, respinta dagli italiani con combattimenti violentissimi. Vi era stato poi nel luglio un nuovo attacco austriaco, nel corso del quale erano stati catturati i noti patrioti irredentisti Cesare Battisti e Fabio Filzi, accusati di tradimento e subito impiccati a Trento, nel castello del Buonconsiglio.
Nel nuovo, infruttuoso tentativo di contrattacco italiano, tra i 17 e il 20 ottobre 1916, trovò la morte, per ferite riportate in combattimento, Giacomo Martinoli, di 26 anni, caporale del IV reggimento alpini.
Poi le battaglie vennero sospese, per l’arrivo di bufere e di straordinarie nevicate, fino alla primavera successiva.
Anche al Monte Pasubio è dedicato un famoso canto alpino.
Monte Pasubio
Coro della Brigata Alpina Julia
Su la strada del Monte Pasubio
lenta sale una lunga colonna,
l'è la marcia de chi non torna
de chi se ferma a morir lassù
Ma gli alpini non hanno paura
7 giugno 2024, Laura e Maria Teresa V.
Il ricordo dei nostri Caduti e gli appunti di storia che contestualizzano le loro vicende continuano: appuntamento al primo venerdì del prossimo mese, luglio.
Le amministrative del 1946
"La guerra finirà, il peggior governo della nostra storia cadrà. A quel punto potremo ricominciare a riparare, a guarire." - Scrive così Eshkol Nevo, scrittore israeliano, sul Corriere della Sera di domenica scorsa, 26 maggio.
Riparare, guarire.
Ottant’anni fa, o quasi.
Dopo vent’anni di regime, cinque di guerra, due di occupazione.
Sulle macerie delle città, sui traumi e sui lutti delle persone e delle famiglie - perseguitate, deportate, prigioniere, sfollate - i nostri nonni si sono impegnati nella ricostruzione e hanno provato a stabilire le regole di una pacifica convivenza.
Il 7 aprile 1946, a Bedero si svolsero le prime elezioni amministrative del dopoguerra. Le prime che, nella storia d’Italia, chiamando al voto anche le donne, furono davvero a suffragio universale.
E davvero tutte e tutti corsero a votare, come si corre assetati a bere a una fontana dopo lunga privazione: più del 90% di affluenza.
Questa è la scheda elettorale che i bederesi si trovarono in mano.
Colpisce che non vi siano donne tra i trentasei candidati: troppo recente il loro riconoscimento sociale.
La legge elettorale in vigore allora era diversa da quella attuale, del 1993. A quel tempo veniva eletto il Consiglio comunale ed era questo a nominare poi, al suo interno, il Sindaco.
Questa la composizione del Consiglio votato nel 1946; può essere che negli archivi comunali sia nascosta anche qualche notizia certa sulla nomina del Sindaco, che al momento non abbiamo.
La prossima settimana Bedero tornerà ad eleggere i suoi amministratori. Con la legge in vigore, i cittadini scelgono direttamente il sindaco. Abbiamo due liste e due candidati sindaci: un uomo e una donna. Tra i candidati consiglieri, le due liste schierano tre donne ciascuno. Segno dei tempi: la cittadinanza delle donne ha fatto molti passi in avanti nei decenni intercorsi e ha raggiunto un livello più compiuto, almeno in linea teorica.
Non si torna al voto con il desiderio degli assetati. Dopo quasi ottant’anni di pace e di diritti, c’è la tentazione di darli per scontati. In ogni caso, le regole della pacifica convivenza che ci hanno dato i nostri nonni sono ancora le migliori che ci sia stato dato sperimentare e vale la pena onorarle.
31 maggio 2024, Laura V.
Centoventisette
L’archivio dell’asilo è uno scrigno dei tesori. Poco frequentato, contiene documenti interessanti, che risalgono indietro nel tempo, fino alle origini.
L’ultimo scorcio dell’800 e l’inizio del ‘900 fu un periodo fecondo per Bedero, in cui vennero realizzate opere significative: il palazzo comunale con i locali scolastici; l’acquedotto con le derivazioni, che alimentarono le fontane pubbliche del paese; la piccola centrale idroelettrica, che consentì di portare in paese una linea elettrica; lo stabilimento di tessitura, che diede lavoro a decine di donne del paese e del circondario.
In questo contesto fu realizzato l’asilo di Bedero, che iniziò la sua attività l’1 giugno 1897, in un locale a piano terra della Casa comunale: esattamente 127 anni fa.
L’1 gennaio 1925 si trasferì nella nuova sede, quella attuale: tra poco cadrà il centenario. Il nuovo edificio fu costruito all’uopo, con il concorso di molti benefattori, tra i quali i ricchi imprenditori Giovanni Zamaroni e Giovanni Martinoli, che contribuirono in modo sostanzioso e vennero perciò ricordati nell’intitolazione (il Martinoli in memoria, perché nel frattempo morì).
Sul sito dell’asilo, in una pagina dedicata, vengono settimanalmente proposti i documenti che raccontano episodi di queste lontane origini. Nessuna affabulazione, solo pubblicazione e trascrizione dei testi, che tutti possono consultare nella versione originale (e magari segnalare qualche interpretazione errata, visto che la calligrafia del tempo, talvolta, non è di facile lettura).
Questo è il breve riassunto di quanto divulgato fin qui.
Il 14 settembre 1896, l’Ospedale Maggiore di Milano cedette alla Congregazione di Carità “i diritti del Bosco Martica”. In cosa consista di preciso questa cessione non è chiaro, l’ipotesi è che si tratti del diritto di taglio, visto che l’Ospedale si approvvigionava in questi suoi ex possedimenti sia di beni alimentari, che di legna da ardere. Fatto sta che questa cessione venne ricompensata con 6000 L. L’importo fu convertito in Rendita Pubblica dello Stato (forse una cosa simile ai nostri BOT). Un capitale che consentì di dar mano al progetto e intraprendere l’allestimento del locale da adibirsi ad asilo.
Allo scopo, la giunta municipale lanciò una colletta, con l’invito a contribuire, rivolto a tutta la popolazione. In gennaio 1897, una commissione incaricata fece il giro completo del paese e interpellò tutti i capifamiglia. Nell’elenco ritrovato compaiono 102 nominativi delle persone contattate dai questuanti. Solo sette rifiutarono di partecipare alla colletta. La cifra raccolta fu di 254.24 L.
Per avere un riferimento, si pensi che la retta mensile per i bambini venne fissata in 50 centesimi, mentre lo stipendio della maestra era di 25 L. mensili.
A questo punto si assegnarono i lavori di falegnameria e di muratura. Per i primi ci fu un solo aspirante, Prospero Martinoli. In un paese di muratori, furono invece diversi a concorrere all’appalto per la muratura. Stilato un particolareggiato preventivo, si svolse una gara al ribasso, a cui parteciparono quattro muratori, offrendo uno sconto percentuale sulla cifra del preventivo. Si aggiudicò il lavoro Bordonetti Abbondio, impegnandosi ad applicare un ribasso del 16,5%.
A maggio i locali furono pronti. Il 20 maggio 1897 si riunì la Congregazione di Carità e deliberò l’apertura dell’asilo. Venne nominata per i primi quattro mesi, fino a settembre, la maestra Luigia Felli di Casalzuigno. Si stabilì l’orario di apertura: dalle 9 alle 17 di tutti i giorni feriali.
Nell’immagine, l’elenco dei ventinove bambini che pagarono la retta nel mese di giugno 1897; in pratica si tratta della prima classe dell’asilo di Bedero. Molte persone del paese potranno trovare in questo elenco un proprio ascendente. Il penultimo, Giuseppe, è un caduto della Prima guerra mondiale (M. Giu. Martinoli sul monumento).
1. Martinoli Anselmo di Francesco
2. Bordonetti Emma fu Gio
3. Borsotti Maria di Innocente
4. Martinoli Pasqualina di Luigi
5. Martinoli Maria di Luigi
6. Martinoli Giacomo di Emilio
7. Bizzini Irene
8. Valugani Rosa
9. Borsotti Giuseppina di Felice
10. Martinoli Luigi di Vittorio
11. Martinoli Maria di Vittorio
12. Martinoli Fermo di Pietro
13. Martinoli Luigia di Pietro
14. Oggioni Clara
15. Martinoli Attilio di Carlo
16. Martinoli Rosa di Gelindo
17. Martinoli Laurina di Luigi
18. Martinoli Teresa di Prospero
19. Martinoli Innocente di Prospero
20. Bizzini Maria di Fermo
21. Santagostino Daniele
22. Martinoli Giovannina fu Candido
23. Bordonetti Massimo di Abbondio
24. Bordonetti Emilio di Abbondio
25. Comini Giovanni di Carlo
26. Martinoli Attilio di Pietro
27. Valugani Daniela
28. Martinoli Giuseppe di Ferdinando
29. Martinoli Savina di Ferdinando
A settembre di quello stesso anno la maestra Luigia Felli da Casalzuigno diede le dimissioni. Fu sostituita da Ida Vaglio da Ganna, la maestra di riferimento per i successivi dieci anni. Dopo breve interludio, l’asilo fu poi gestito dalle suore per oltre 50 anni.
10 maggio 2024, Laura V.
Caduti: Michele Franzetti, 32 anni
In paese, il settembre 1916 era iniziato con l’annuncio della morte al fronte di Donato Martinoli. Non era ancora finito il mese, e di nuovo la campana a morto risuonò
Michele Franzetti, soldato del 230° reggimento di fanteria, muore il 28 settembre, in seguito a ferite in combattimento.
Non ci sono testimonianze famigliari a raccontarlo, si può solo immaginare lo strazio della madre. Rachele ha cinque figli, tutti maschi e tutti in età di leva: nel 1916, Michele ha trentadue anni, Carlo ne ha ventisei, Luigi ventiquattro, Massimo ventidue, Cesare diciannove. Potrebbero essere tutti e cinque al fronte o forse uno è stato risparmiato, come sostegno di famiglia.
La mamma riceve la notizia: il primogenito è stato ferito in combattimento. Terrore, speranza, voti, preghiere. Poi il telegramma con l’annuncio della morte. E il terrore, la speranza, i voti e le preghiere continuano, per tutti gli altri figli in guerra…
Appunti storici
Michele Franzetti morì nell'Ospedale mobile Città di Milano e venne seppellito nel sacrario militare di Oslavia, a nord di Gorizia.
È quasi certo che abbia partecipato alla battaglia di Gorizia, la sesta delle undici battaglie dell'Isonzo, combattuta tra italiani ed austriaci per buona parte dell'agosto 1916 e conclusasi con la conquista italiana della città: la più significativa vittoria dopo un anno di guerra.
Fu uno scontro duro, con un grandissimo numero di morti, di feriti e di soldati fatti prigionieri. Tra gli italiani, costò la vita a 1759 ufficiali e a quasi 50.000 soldati, mentre gli austriaci persero 862 ufficiali e quasi 40.000 soldati.
A ricordo di questo massacro nacque, anonimo, un canto famoso. Fu osteggiato dai comandi militari e si diffuse clandestinamente, perché non offuscasse la retorica ufficiale.
O Gorizia, tu sei maledetta
per ogni cuore che sente coscienza
dolorosa ci fu la partenza
e il ritorno per molti non fu
O vigliacchi che voi ve ne state
con le mogli su letti di lana
schernitori di noi carne umana
e rovina della gioventù
Giovanna Marini canta "O Gorizia, tu sei maledetta"
La città di Gorizia fu distrutta. Quando entrarono i primi fanti italiani, vi trovarono solo macerie; dei 30.000 abitanti ne erano rimasti poco più di 3.000.
L’ospedale mobile Città di Milano, dove fu ricoverato e morì Michele, era attrezzato con tende trasportabili e personale specializzato in interventi chirurgici. Entrò in funzione nel maggio 1916, dall'agosto del 1916 operò nei pressi di Gorizia, nella scuola del paese di Quisca (oggi in Slovenia).
L'iniziativa di dare vita a unità chirurgiche mobili era stata presa alcuni mesi prima dal professor Baldo Rossi, dell'Ospedale Maggiore di Milano, maggiore e medico della Croce Rossa. Egli si era reso conto che i feriti gravi non ricevevano dalle unità poste in prima linea alcun soccorso. Venivano rimandati in genere alle strutture sanitarie di seconda linea, dove nella maggioranza dei casi non arrivano vivi, sia per i traumi subiti, che per le difficoltà del trasporto.
Da un giornale dell'epoca, l'immagine di un autocarro con le attrezzature.
Giuseppe Ungaretti, uno dei più grandi poeti del ‘900, si arruolò e combatté sul fronte del Carso tra il 1915 ed il 1916, come il nostro giovane caduto. Le sue parole sono testimonianza della tragica esperienza di Michele e di centinaia di migliaia di compagni, in questi mesi estivi del 1916. Distruzioni e macerie, i corpi straziati: immagini vivide della brutalità della guerra.
I versi di Ungaretti sono un modo di affermare, nel minaccioso e drammatico contesto della guerra - ieri come oggi - la dignità tragica del destino umano, individuale e collettivo.
Sono una creatura
Valloncello di Cima Quattro, il 5 agosto 1916
Come questa pietra
del S. Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
così totalmente
disanimata
Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede
La morte
si sconta
vivendo
3 maggio 2024, Laura e Maria Teresa V.
Il ricordo dei nostri Caduti e gli appunti di storia che contestualizzano le loro vicende continuano: appuntamento al primo venerdì del prossimo mese, giugno.
Caduti: Donato Martinoli, 22 anni
È importante tenere viva la memoria di persone, di fatti e di sacrifici, che ahimè ancora e sempre devono parlare al mondo di oggi, che si scorda troppo della storia.
Ho cercato informazioni in famiglia su questo zio, ma ne ho raccolte poche. Anche questo mi ha fatto pensare a quanto prezioso, unico e davvero irripetibile sia raccogliere le testimonianze di chi ancora può raccontare.
Poche notizie, dicevo. In compenso, ho di questo zio delle stupende foto, che amo molto. Guardando quel ragazzo così giovane, pensando al suo sacrificio e alla brutalità della guerra, provo delle sensazioni su cui potrei scrivere un romanzo.
Spero che, nonostante sia poco, questo materiale possa essere utile alla memoria, che non deve spegnersi.
Donato era il terzo dei tre figli di Luigi e Angela Maria: Pasqualina fu la prima (1891), poi nacquero Maria (1893) e, ultimo, Donato (1894). Il ragazzo fu mandato in giovane età a studiare in collegio a Bergamo.
Questa è l’immagine della famiglia che probabilmente il giovane, lontano dai suoi cari, aveva con sé.
Un’altra foto lo ritrae da solo: un bel ragazzo, in abito elegante.
Poi, la chiamata alle armi. Tagliati i capelli, indossata la divisa, Donato partì per il fronte.
Un anno di guerra, quindi i combattimenti sul fronte dolomitico, le ferite e la morte.
Donato ha una tomba nel cimitero di Bedero, ma il suo corpo non è lì. La situazione di guerra non permetteva di avere certezza sul riconoscimento dei corpi, per questo alla fine delle ostilità si chiese alle famiglie se volessero il corpo del proprio caro, ma senza certezza dell’identità. La famiglia Martinoli decise di lasciare il proprio figlio a riposare in pace ovunque fosse sepolto, insieme a tutti gli altri poveri compagni.
Pensiamo che il suo corpo sia nel sacrario militare di Pocol, vicino a Cortina e vicino al luogo della morte.
Al momento della costruzione, a Pocol furono sepolti i resti di 9707 caduti, di cui 4455 ignoti. Sono stati portati lì i resti dei soldati ritrovati successivamente, ora in totale le sepolture sono 10554.
5 aprile 2024, Chiara M.
Appunti storici
L’Italia era entrata in guerra a maggio, il 1915 fu un lungo anno di logoramento per tutte le parti combattenti, senza che si pervenisse ad alcun risultato conclusivo.
L’inizio del 1916 vide una violenta offensiva tedesca sul fronte occidentale, che si spezzò contro la resistenza accanita di francesi e inglesi. Furono mesi di furiosi combattimenti, con strage in entrambi i campi: nelle battaglie di Verdun e sulla Somme vi fu più di un milione di morti, senza nessun risultato apprezzabile.
Nel maggio 1916 gli austriaci lanciarono a loro volta sul fronte italiano una grande offensiva, che si sviluppò tra il Garda e il Brenta: la Strafenexpedition, ovvero spedizione punitiva contro gli italiani, ex alleati. L’offensiva venne bloccata e, a partire dalla metà di giugno del 1916, gli italiani lanciarono una loro controffensiva, sia sul fronte dolomitico che, soprattutto, sul fronte dell’Isonzo, dove si combatterono sanguinose battaglie, che si conclusero con la presa di alcuni monti, tra cui il San Michele e il Sabotino, e di Gorizia.
Sul fronte dolomitico cadde il secondo ragazzo bederese, Donato Martinoli, di 22 anni, soldato del 91° fanteria. Morì il 4 settembre 1916, per ferite riportate in combattimento sul monte Forame, sul quale l'attacco italiano si sviluppò dalla fine di agosto, per conquistarne la cima tra il 3 ed il 4 settembre. Gli austriaci poi contrattaccarono e gli italiani, pur combattendo con accanimento, furono costretti a ripiegare.
Solo tra il 4 e l'8 settembre 1916 le perdite italiane sul monte Forame furono di 270 uomini. Nell'autunno, tra il 26 ed il 27 novembre, gli italiani ripartirono in un altro disperato attacco, respinto dagli austriaci: in due giorni di combattimento, gli italiani ebbero altri 897 morti.
5 aprile 2024, Maria Teresa V..
Il ricordo dei nostri Caduti e gli appunti di storia che contestualizzano le loro vicende continuano: appuntamento al primo venerdì del prossimo mese, maggio.
Caduti: Pietro Zappatini, 24 anni
Anziché spegnersi, si accendono nuovi focolai di guerra. Le persone, civili e soldati, continuano a morire. Rievochiamo le storie dei nostri Caduti perché si ravvivi l’umana compassione per chi, oggi come allora, è carne da macello.
Pietro sta per compiere 24 anni, la sua è una famiglia di mezzadri che è venuta a lavorare in Camparunscin da Caravate, solo un po’ più giù nella Valcuvia. Me lo vedo risalire con passo sicuro, per la via breve, il sentiero e la scalinata che da Camparunscin portano verso la chiesa. Sua sorella Carolina gli sopravviverà e vivrà tutta la sua vita a Bedero: viene ricordata con l’appellativo di Carolina baldoria. Il soprannome le dà una connotazione di festa e di allegria e nella mia immaginazione il fratello le somiglia: dopo avere tagliato il fieno, nel maggio splendente del 1915, la sera è diretto all’osteria, oppure a corteggiare una ragazza.
Ma la Storia lo travolge e lo annienta. Il 24 maggio l’Italia entra in guerra, arriva la cartolina militare, Pietro parte per il fronte. Passano meno di due mesi, e quella scalinata, quello stesso sentiero, qualcuno lo percorre in discesa, con in mano un telegramma con la ferale notizia.
Ferito in una delle numerose battaglie sul Monte Nero, Pietro è il primo soldato di Bedero a morire, il 19 luglio 1915, due giorni dopo il suo 24esimo compleanno.
Monte Nero Monte Nero,
traditore della vita mia,
ho lasciato la casa mia
per venirti a conquistar.
Per venirti a conquistare
ho perduto tanti compagni
tutti giovani sui vent'anni
la sua vita non torna più...
Appunti storici
L'ingresso dell'Italia in guerra avvenne il 24 maggio 1915, quando già Germania ed Austria, le due potenze che avevano attaccato la Francia e la Russia, combattevano da quasi un anno. I comandi militari, in particolare tedeschi, avevano puntato su una guerra breve e di movimento, ma lo svolgimento reale era stato molto diverso da quello previsto nei piani iniziali.
Dopo i primi successi delle truppe tedesche e austriache, la loro avanzata venne fermata e si aprì sia sul fronte occidentale che su quello orientale una sanguinosa guerra di posizione. In particolare, sul fronte occidentale, gli eserciti tedesco e francese si fronteggiarono per mesi, tentando grandi offensive che si succedettero per tutto il 1915.
L'intervento in guerra dell'Italia nel maggio 1915 aprì un terzo fronte, dove il generale Cadorna, comandante supremo dell'esercito italiano, immaginò a sua volta un conflitto rapido contro gli austriaci: conquistare in breve la Slovenia e attaccare Vienna. L'attacco, invece, si trasformò quasi immediatamente in una lunga guerra di posizione e di trincea lungo il corso del fiume Isonzo e sulle alture del Carso.
La strategia di Cadorna consisteva nello sferrare ripetuti assalti della fanteria, con enormi perdite umane quando i soldati uscivano allo scoperto dalle trincee, finendo sotto il fuoco nemico. Tra il giugno ed il dicembre 1915 sull'Isonzo e sul Carso furono lanciate quattro sanguinose offensive, che permisero la conquista di alcune posizioni.
Tra le prime battaglie vi fu quella per la presa del Monte Nero, condotta con successo tra il 15 ed il 16 giugno 1915 da sei batterie di alpini, che ebbe tuttavia un costo assai elevato in termini di vite umane.
Nelle settimane successive alla battaglia, gli italiani tentarono di continuare l'avanzata, ma gli austriaci si attestarono in trincee, che vennero rinforzate con reticolati e protette dalle artiglierie, partendo dalle quali tentarono più volte di contrattaccare. In queste azioni perse la vita Pietro Zappatini, il primo caduto di Bedero.
Sul fronte alpino, il 1915 fu un lungo anno di logoramento per tutte le parti combattenti, senza che si pervenisse ad alcun risultato conclusivo.
1 marzo 2024, Laura e Maria Teresa V.
Il ricordo dei nostri Caduti e gli appunti di storia che contestualizzano le loro vicende continua: appuntamento al primo venerdì del prossimo mese di aprile
Caccia alle differenze
Elena propone un documento, riemerso da un cassetto: la presentazione del paese che quattro ragazzini del paese, compagni di classe, hanno preparato come ricerca scolastica trent’anni fa.
Ecco alcuni stralci: oltre all’introduzione, ci sono i disegni e i testi che, tra gli altri, spiccano per essere contributo personale degli autori.
Il paese è migliorato, peggiorato o rimasto uguale?
Il paese
La betulla sembra, secondo antichi scritti, l’origine del nome di Bedero.
La realtà odierna è che il paese viene denominato “balcone sulla Valcuvia” per via della sua felice posizione panoramica, che permette una visione globale di gran parte del territorio della comunità.
Il centro storico è rustico e ben conservato; in ogni angolo si notano le tracce di un passato di quasi cinque secoli di storia.
Si segnala la parrocchia di S. Ilario con altare del XVIII secolo e con pregevoli affreschi del Marone.
Il centro storico
Il centro storico di Bedero viene chiamato “Buc” ed è costituito da case molto vecchie (di circa 5 secoli). Qui è proibito passarci poiché gran parte delle case sono cadenti.
Il monumento ai caduti
Nella piazza di Bedero si può notare un monumento dedicato ai Prodi Caduti durante la 1 Guerra Mondiale.
Il più di questi caduti è della famiglia Martinoli.
Il materiale con cui è stato costruito è molto semplice: lastre di pietra sovrapposte in modo da formare una piccola montagna.
Al culmine di questo monumento c’è un leone che sta a significare la potenza e il coraggio dei caduti.
Sotto a quest’ultimo c’è una fontanella dove ci si abbevera.
L’epigrafe
Sempre nella piazza possiamo osservare anche un’epigrafe in onore dell’ex sindaco.
L’epigrafe è fissata sulla parete della casa dove visse il sindaco; essa è molto vecchia di un colore rosso screziato.
Nella parte superiore si può osservare il ritratto del sindaco.
Il negozio di alimentari
Questo negozio riportato rappresenta l’alimentari più frequentato del paese. La proprietaria si chiama Bice, è una signora molto socievole ed amica dei bambini, che gestisce il negozio insieme al marito. Curiosità: questo negozio situato al centro del paese, nelle giornate di estate (specialmente di sabato) è “vuoto”, poiché le persone di Milano che vanno a godersi le vacanze nel nostro bello e tranquillo paese di montagna fanno provviste.
La fattoria
Verso la periferia di Bedero possiamo trovare una fattoria dove vengono custoditi molti animali.
Fra tante bestie i più numerosi sono i cavalli. Questi ultimi sono tenuti in recinti di legno; questi animali sono di diverse razze: nobili e selvatici.
La fattoria è in un bosco, quindi quasi invisibile al pubblico.
L'abitazione contadina
16 febbraio 2024, Elena B.
Caduti: Elia Martinoli, 28 anni
Racconta Natalina, classe 1927, cugina del tenente Elia Martinoli, caduto nella Seconda guerra mondiale
L’Elia era mio cugino e portava lo stesso nome di nostro nonno Elia.
Il nostro nonno Elia nacque il giorno di S. Patrizio, il 17 marzo, nel 1857. Ebbe tre mogli e molti figli, di cui sopravvissero cinque figlie femmine - una era la Pierina, mia mamma - e un unico maschio: il primogenito, il Luisin. L'attività di famiglia, la latteria, garantiva un certo benessere e il Luisin, che ne era l'erede, aveva grandi progetti: aveva comperato il Cios e voleva costruirvi una casa nuova. Ma non ebbe fortuna: dei cinque figli, solo uno, l'ultimo, sopravvisse alla nascita. Sua moglie Pina dovette andare a Milano per far nascere l'Elia, nel 1915. E quell'unico suo figlio è proprio quel mio cugino, che morì in guerra nel 1943, a 28 anni.
Ecco la famiglia del Luisin in una foto di cent’anni fa: vi compare lo zio con il suo birocc, su cui stanno la moglie Pina e l'Elia da bambino.
In quegli anni abitavano nella grande casa di piazza, con il nonno Elia e la mia famiglia, e mandavano avanti la latteria situata al pianterreno, dove adesso ci sono i locali della Caritas. Il Luisin faceva anche il carrettiere e prendeva delle ciucche memorabili, nelle quali andava a gridare sotto le finestre del padre a proposito di una certa cambiale che - diceva - l'aveva costretto a firmare.
Il suo ragazzo, l'Elia, proseguì gli studi in collegio a Saronno. Divenne un bel giovane, serio ed affettuoso. Io era la più grande dei suoi cuginetti della porta accanto, abitavamo infatti porta a porta con la sua famiglia. Gli ero molto affezionata. Quando dovetti interrompere la scuola, mi esercitavo nella lettura prendendo a prestito i suoi libri…
Ma non andava d'accordo col padre. Forse era il padre a non rispondere alle sue aspettative, forse era lui a sentirsi pressato dalle attese del genitore. Fatto sta che, contro il volere della famiglia, si arruolò nella Guardia di Finanza, si trasferì a Bolzano e lì si diplomò.
Allo scoppio della guerra fu mandato sul fronte russo. Sopravvissuto alla ritirata di Russia, si trovava a Bressanone al momento dell'armistizio, l'8 settembre 1943. Il 9 settembre, asserragliato in una scuola con il suo plotone, resistette ai tedeschi che intimarono la resa. Gli sparano, morì.
Giunse a casa la notizia. Il Luisin partì per Bressanone oppresso dal dolore, fors'anche dai sensi di colpa. Voleva riportare in paese la salma. Tornò senza esservi riuscito, in preda a una depressione terribile. Non solo era disperato per la sorte del suo ragazzo, ma raccontava di avere visto i treni di deportati diretti verso la Germania, di avere sentito nei vagoni sbarrati la migliore gioventù del Paese disperarsi, di aver osservato cadere dalle fessure dei vagoni sbarrati dei bigliettini scarabocchiati con mozziconi di matita, che la gente dei campi raccoglieva, annotando nomi ed indirizzi, per dare notizia alle famiglie della sorte di questi soldati lanciati verso un destino ignoto. E i contadini aiutavano come potevano, imbucando cartoline per le famiglie dei deportati e imbucando mele dentro i vagoni, attraverso i pertugi, per dare conforto ai soldati - era infatti la stagione della raccolta delle mele. Il Luisin tornò a Bedero annientato. Non riusciva più a vedere una luce, un futuro. Nè per sè, nè per la sua famiglia, nè per il Paese.
La guerra al fronte si trasformò in guerra civile e trascorsero gli ultimi anni. I più bui, i più divisivi.
Alla fine del '43 un giovanissimo cugino dell'Elia, il Mario, chiamato alle armi per la Repubblica di Salò, aveva disertato e si nascondeva nella soffitta di casa. Un giorno che i tedeschi stavano perquisendo tutte le case del paese, gli abitanti della casa di piazza aspettavano con terrore il loro turno, sperando che il Mario riuscisse a dileguarsi sui tetti. I nervi erano a fior di pelle. Quando arrivarono i soldati, però, qualcuno del paese chiese rispetto per quella famiglia, che aveva avuto un lutto recente: l'unico figlio morto in guerra. E così i tedeschi tralasciarono la perquisizione.
Poi, nella primavera del '45, venne la Liberazione e cominciarono, uno ad uno, attraverso mille peripezie e difficoltà, a tornare i prigionieri di guerra.
L'Elia giaceva a Bressanone in una fossa comune. Fu riesumato e ricomposto in una bara, per essere riportato alla famiglia, secondo il volere del padre.
Era buio e io ero sotto casa e stavo andando proprio dagli zii. Mi fermò un uomo chiedendomi indicazioni, mi spiegò che stava riportando la salma dell'Elia, caricata su un carro. Andammo a chiamare il prete, don Luis, che fece portare la bara in chiesa. Poi allestirono la camera ardente dove c'era la sala dei combattenti (prima era la Casa del Fascio, poi ci avrebbero aperto il circolo) e alla fine celebrammo il funerale.
I genitori dell’Elia non ressero il dolore. Il Luisin si impiccò nel suo Cios, sua moglie Pina era già a letto malata e gli sopravvisse di poco.
L'Elia riposa con i genitori nel cimitero di Bedero, unico dei tre Caduti della Seconda guerra mondiale.
2 febbraio 2024, Natalina M.
Medaglia d’argento al valor militare, con la seguente motivazione:
“Ufficiale già decorato di medaglia d’argento al VM nella campagna di Russia 42-43 combattè con fermezza, valore e sprezzo del pericolo, animando i suoi Alpini con la parola e con l’esempio sino a che colpito mortalmente cadde pronunciando parole di fede all’indirizzo della Patria e degli Alpini"
Bressanone 8-9-1943
Bedero, paese di costruttori
Parto da una suggestione che mi viene dall'originale presepe di quest'anno, e da alcuni commenti letti a proposito sul sito: Bedero, paese di “costruttori”.
In effetti questa è la storia di tanti nostri antenati a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, poi proseguita per i primi decenni del Novecento, da quando iniziò per tanti uomini del paese la migrazione stagionale al di là delle Alpi, in Francia, in Svizzera, sul confine tedesco, per alcuni anche più lontano.
Erano per lo più giovani, desiderosi di migliorare le proprie condizioni economiche, sfuggendo alla povertà, che la nostra agricoltura di montagna non permetteva di superare. Da questo punto di vista, anzi, l'orgoglio di avere “comprato” il proprio paese dall'Ospedale Maggiore di Milano non si era coniugato, per la maggior parte della popolazione di Bedero, con un aumento delle risorse collettive e individuali.
Nonostante il pregevole tentativo dei capifamiglia di dividere i lotti secondo criteri di equità e di giustizia, la frammentazione proprietaria che ne era seguita, moltiplicatasi già nel giro di una/due generazioni, aveva ridotto la disponibilità di risorse di molte famiglie, quasi tutte assai numerose.
Così i maschi giovani iniziarono a partire: se ne andavano in primavera per tornare verso la fine dell'autunno, in genere in piccoli gruppi, alla ricerca di nuove opportunità di lavoro. Quasi tutti si specializzarono nel mestiere di muratori, anche apprendendo all'estero nuove conoscenze e più moderne tecniche costruttive, che cercarono di applicare, nei loro ritorni periodici al paese.
Negli ultimi decenni dell'Ottocento ecco dunque Bedero allargarsi ben oltre il nucleo originario dei Bocc, da cui la maggior parte degli abitanti si allontana per nuove case, più confortevoli, che sorgono all'esterno, verso gli orti e la campagna: si formano nuovi rioni che prendono ciascuno una sua denominazione, Carbunisc, Carbulat, Burdunet. Una specie di “seconda cerchia di mura”, che mi ricorda le modalità di espansione dei comuni italiani dopo il 1000.
Nella costruzione delle nuove case lavorano interi nuclei familiari: partecipano anche le donne, spesso impegnate in lavori di fatica, come trasportare giù dalla montagna, nelle loro gerle, pesanti sassi. Spesso in un progetto comune si associano due, o più fratelli.
In molte famiglie di Bedero si conserva il ricordo di queste avventure, nei racconti orali dei più anziani, e in qualche foto d'epoca, ormai sbiadita.
Io posso raccontare qualche storia della mia famiglia tramandatami dai nonni, da mio padre, ed ancora talvolta riascoltata dall'ultima formidabile testimone d'epoca, mia madre, che si avvia a compiere, lucidissima, i suoi 97 anni.
Da mio padre viene il racconto di come sorse, a metà della via principale, rivolta verso la valle, la nuova casa dei due fratelli Valugani, Paolo e Giovanni Battista. Entrambi sposati, con numerosi figli, costruirono la loro casa in orizzontale, con ampi spazi ma ad un solo piano. La divisero poi in due parti simmetriche: quella di sinistra, volta a mezzogiorno, andò a Paolo, mentre quella di destra, volta a nord, fu di Giovanni Battista, detto Batistun per l'altezza, il mio bisnonno; entrambi vi vissero fino a tarda vecchiaia con la numerosa famiglia, e a loro succedettero i figli.
Negli ultimi decenni dell'Ottocento siamo comunque ancora in una fase “egualitaria” tra le famiglie, ciò che appare con anche più evidenza nella seconda storia che racconterò, quella della famiglia di mia madre e della casa di Carbulat.
Furono due fratelli Martinoli (in alto a sinistra nella foto di copertina), Prospero e Martino, mio bisnonno, a progettarla ed a realizzarla, negli anni '70/'80 dell'Ottocento, questa volta sviluppandola in verticale, su tre piani, appoggiata alla roccia, senza contare due grandi cucine situate a pianterreno.
Fu sempre in verticale che decisero di dividere la casa: la sinistra fu di Prospero, la destra di Martino; ciascuno di loro poteva contare, oltre alla cucina, su due stanze ciascuno nei tre piani superiori, sette stanze per ogni famiglia. In mezzo, come spazio comune, un grande luminoso corridoio, da cui partiva la bella scala di pietra grigia; anche alcuni servizi erano progettati in comune, come il grande forno del corridoio al pianterreno.
Nel costruire la loro casa i fratelli pensavano di certo ad un destino comune e ad una armonica convivenza, ma non andò così: mentre Prospero vi si stabilì e, sposatosi con Giovannina, ne ebbe numerosi figli, e vi visse fino alla morte, Martino, tornato in Provenza per lavoro, si innamorò, si sposò, ebbe figli e visse in Francia fino alla morte, senza mai tornare al paese.
Fu il suo unico figlio maschio, Adriano, mio nonno, che vi tornò, già adulto, e solo per obbligo del servizio militare, incappando nella Grande Guerra. A Bedero Adriano si sposò, due volte, e alfine riuscì a riportare la numerosa famiglia nella casa di Carbulat, ma solo nel secondo dopoguerra: né la convivenza tra due gruppi familiari vi fu così idilliaca come gli avi avevano immaginato.
Ed ecco che entrambe le case dei miei bisnonni, casa Valugani e casa Martinoli di Carbulat, sono oggi deserte...
Torno alla suggestione iniziale: Bedero, paese di “costruttori”, riportando qualche altra storia della mia famiglia, ascoltata dai miei genitori. Ci spostiamo nelle prime decadi del Novecento, ed ecco qualche memoria di fortune e disgrazie, di “vincenti” e di “perdenti”.
Mio padre ricordava suo zio Giuanin, Giovanni Martinoli, fratello di sua madre Maria: partito dal nulla, era diventato un abile e intraprendente costruttore. In Alsazia, vicino a Metz, si era ritrovato a ricostruire un intero borgo, dopo le devastazioni della Prima guerra mondiale. Aveva fatto fortuna: a testimonianza di ciò, si fece costruire una grande villa nella strada in discesa verso il cimitero, quella a fianco della villa Zamaroni.
Proveniente da una famiglia di ben otto fratelli e sorelle, si sposò ma non ebbe figli: cercò dunque di aiutare i tanti nipoti. Mio padre raccontava che lo zio Giuanin, che morì ancora giovane, nel 1923, volle assegnare a ciascuno dei fratelli e delle sorelle una cifra consistente, 10.000 lire, e 500 lire ad ognuno dei nipoti.
Della famiglia Valugani, tuttavia, mio padre ricordava anche le disgrazie, anche i “perdenti”. Così uno zio paterno, Felice, detto Felizin: emigrato con suo padre a Basilea, morì giovanissimo, annegando nel fiume.
Dalle memorie di mia madre riguardanti la sua famiglia, traggo anche qui il ricordo di uno zio di successo: lo zio Stefen, Stefano Pelloli, marito di una sorella di sua madre, la zia Gianin. Avendo già alcuni elementi di istruzione appresi a Basilea, questi si era poi trasferito in Francia. Qui fece discreta fortuna costruendo case nella regione a nord di Parigi, spesso impiegando manovalanza proveniente da Bedero. Tornato in vecchiaia in paese, vi morì nella sua casa affacciata sulla piazza, già ricostruita con orgoglio con cemento e ferro (ed ora anch'essa vuota, abbandonata).
Questa non fu la sorte, purtroppo, di un altro suo zio, anch'egli marito di una sorella della madre, la zia Luzia. Placido Bordonetti, così si chiamava, già padre di due bambini e di un altro in arrivo, andato in Francia come muratore, ancora giovane vi si ammalò di polmonite e vi morì, lasciando in grande difficoltà la vedova e i suoi figli.
Ho voluto riportare alcuni frammenti di storia, ed alcuni frammenti di vissuto, tratti dai racconti uditi nella mia famiglia, prima che il passare del tempo li cancelli del tutto. Sono testimonianze del grande sforzo, collettivo e individuale, che generazioni di bederesi hanno compiuto per migliorare le proprie condizioni di vita, per trasformare il loro piccolo paese.
19 gennaio 2024, Maria Teresa V.
Immagini di una festa
di Sant'Antonio degli anni '70
Da un album fotografico
di Marisa B., che ringraziamo
Festa di omen
Domenica è festa in paese: è Sant'Antonio. Tocca ad altri più preparati approfondire la figura del Santo, mentre sulla devozione del paese a Sant'Antonio ha scritto pagine significative il nostro esperto di storia locale, Camillo Bignotti, ne L’eroico romanzo di Bedero Valcuvia. Io voglio invece raccontare quello che so sul significato laico della festa, che sta scivolando via dal ricordo dei più, man mano che passano le generazioni.
A cavallo tra Ottocento e Novecento, Bedero è un paese di emigranti. C'è chi fa le valigie e parte definitivamente dal paese, mettendo su famiglia oltralpe. Ma, per la maggior parte, gli emigranti sono lavoratori stagionali impiegati nell'edilizia, che lasciano a Bedero la famiglia e partono a marzo per la Francia, la Svizzera e altri paesi del nord e dell'est Europa. Nei mesi invernali, quando i cantieri edili si fermano, tornano a casa per qualche tempo.
Ho voluto vedere una citazione di questa fase storica nei muratori dello spettacolare presepe, realizzato in chiesa quest'anno: chissà se è davvero stata intenzione degli ideatori…
A casa gli uomini riprendono per un po' la vita familiare e magari mettono in cantiere il figlio successivo, quello che conosceranno al prossimo ritorno. Si occupano del taglio dei boschi e riprendono la vita di comunità: si incontrano, si scambiano le esperienze, progettano le nuove partenze. Al culmine di questo periodo di presenza degli uomini nel paese, cade la ricorrenza del Santo, che diventa l'occasione per grandi festeggiamenti: musica,
canti, libagioni, giochi. È la "festa di omen": non si chiama così perché vengono festeggiati gli uomini, ma perché sono gli uomini a festeggiare. Così come la “festa di donn" a fine settembre: le donne festeggiano alla fine della stagione agricola, visto che sono loro a portare avanti, con i vecchi e i bambini, il lavoro dei campi. A settembre il grosso è fatto, giungono a termine le gravidanze, ci si prepara al ritorno degli uomini. Anche in questo caso non è che si festeggiano le donne: sono le donne a festeggiare, tirando un attimo il fiato e facendosi reciprocamente coraggio.
Queste cose me le ha raccontate mio padre, che è morto da più di vent'anni. Posso anche più o meno ricostruire il quando e il come. Anche lui emigrante, sentiva particolarmente questa festività e la viveva con passione ed entusiasmo. Erano gli anni Settanta, io ancora una ragazzina. Una sera, alla vigilia della festa, era ora di andare a dormire e mio papà non era ancora rincasato.
- Vai a cercarlo al circolo. Non vorrei che avesse bevuto qualche bicchiere di troppo…
Andai. Enza mi fece passare dietro il bancone e scendere giù in cantina. Vista l’ora tarda, per evitare le proteste del vicinato, aveva confinato laggiù il "bandin", che stava suonando davanti a un piccolo gruppo, accalcato attorno. Era infatti la tradizione: qualche elemento della banda che avrebbe suonato l'indomani concordava il repertorio e faceva un piccolo saggio la sera prima nel "santuario popolare, laico e interclassista del paese": il circolo (cito la fulminante definizione di Bruno Perazzolo, nel suo recente articolo sul presepe di Bedero). Mia mamma aspettò inutilmente il nostro ritorno, perché mi fermai anch'io lì tra gli uomini, ad ascoltarli ed osservarli fino alle ore piccole, conquistata dall'allegria dei canti, dalla profondità della condivisione, dalla commozione dei ricordi. Credo di non avere più mai più avvertito con quella intensità il senso di comunità del paese.
12 gennaio 2024, Laura V.
Caduti: Mario Giuseppe Martinoli, 25 anni
Arriva la prima risposta al nostro appello, lanciato a novembre 2023
Invio la scansione di qualche documento ritrovato relativo al soldato Mario Giuseppe Martinoli, che era il fratello della mia nonna Savina Martinoli.
In famiglia era noto come "zio Giuseppino" nato il 23 aprile 1892 e morto il 28 dicembre 1917, a causa di un incidente: il suo mezzo, scivolato sul ghiaccio, è finito in un burrone ed è morto sul colpo. Altro non so perché sia chi l'ha conosciuto, sia chi poteva avere sentito altri aneddoti, non ci sono più.
2 gennaio 2024, Laura M. - Busto Arsizio