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È arrivato il cassone del ferro. Un evento ormai atteso, liberatorio. Dopo aver accantonato per mesi anche singoli chiodi, finalmente si possono liberare angoli di cantine, solai, magazzini e scaffali.
Il grande cassone ingoia tutto. Quando arriva sembra la pancia vuota di un enorme balena e ci si chiede sempre come si possa riempirla, sfamarla. Alla fine ci si domanda invece come fare a farci stare tutto.
Cominciamo il venerdì pomeriggio, trasferendo nel cassone tutti i rottami recuperati durante il lavoro da Gianluigi, l'idraulico del paese, accumulati fuori dal capannone di Massimo. Solo quelli sono già un bel boccone.
In più si aggiungono quelli recuperati dalla giornata ecologica al Murinasc. È Pinuccio con il suo trattore a fare il grosso del lavoro, noi siamo gli aiutanti.
Dopo qualche ora il trasferimento dei rottami è concluso e metà del cassone già pieno.
Riprendiamo sabato mattina, girando per il paese con la jeep carrellata di Massimo. Abbiamo un elenco di indirizzi, alcuni si aggiungono all'ultimo momento. Carichiamo diverse lavatrici, evidentemente un elettrodomestico fragile.
Poi serramenti, reti di letti, sedie, stendipanni, pentole, caloriferi, vecchi utensili, vecchi attrezzi da giardino, motoseghe, posate, biciclette.
Ma non tutto è rotto, così qualcosa viene sottratto al destino dell‘imminente fusione, come un gigantesco campanaccio per vacche, che verrà forse esposto nella sede degli Alpini.
Dal capannone di nonno Giulio escono un enorme compressore, un vecchio carrello, componenti meccaniche varie, e il figlio Alberto con la sua benna solleva, carica e comprime, per ridurre gli spazi vuoti che inevitabilmente si creano tra i rottami.
Qualcuno arriva con i propri mezzi e noi aiutiamo a scaricare, intanto controlliamo che il conferito sia corretto, cosa che purtroppo non sempre avviene.
Nel centro di raccolta, prima della fusione - ci dicono - il materiale viene comunque selezionato: è un lavoro ingrato, non privo di rischi, che viene svolto per lo più da immigrati.
Verso fine mattinata, il cassone viene chiuso lateralmente. Da questo momento potrà essere caricato solo dall'alto. La pancia della balena è piena, ma sicuramente prima che venga portata via, gli ultimi arrivati depositeranno all'esterno i loro rottami
E così torneremo a domandarci: e ora questi dove li mettiamo?
16 maggio 2025, Gabriele K.
P. S. - ll conferimento dei rottami metallici realizzato il 10 e l'11 maggio 2025 ha portato alla raccolta di più di 7 tonnellate di materiale e all'incasso di 1.038,80 euro.
L'asilo di Bedero ringrazia tutti quanti hanno collaborato alla buona riuscita dell'impresa.
Dall'asilo, 21 maggio 2025
In vista dell’assemblea annuale dei soci, in cui stasera 11 aprile 2025 si discuterà il futuro dell’asilo, lanciamo uno sguardo retrospettivo. Perchè è importante partecipare alle scelte dell’oggi e farlo con consapevolezza e giudizio
L’asilo viene fondato nel 1897 dal Comune di Bedero e gestito attraverso una commissione comunale denominata “Congregazione di carità“, che si occupa delle spese sociali.
I bambini sono ospitati in un’aula allestita al piano terra del nuovo palazzo comunale. La classe è condotta da una maestra stipendiata. Questo assetto dura fino al 1908, quando vengono reclutate e retribuite le suore dal benefattore Zamaroni, un industriale locale che diventerà presto anche sindaco del paese.
Negli anni a cavallo della prima guerra mondiale, il benefattore e sindaco Zamaroni in collaborazione con il benefattore e presidente della Congregazione di carità Martinoli costruiscono a loro spese l’attuale sede. Nel 1923, morto il Martinoli per malattia, la vedova e lo Zamaroni donano lo stabile al Comune.
Lo Zamaroni, in veste di benefattore, dona.
Lo stesso Zamaroni, in veste di sindaco, accetta.
Da sindaco a podestà, è sempre lo Zamaroni – a capo del paese per 25 anni, dieci dei quali per nomina prefettizia, sotto il regime fascista – che guida la trasformazione dell‘asilo in ente morale, nel 1930. L’edificio diventa patrimonio dell’ente. Lo statuto, approvato il 30 giugno 2029, rimane in vigore a lungo. Presumibilmente ne è stato approvato uno successivo, negli anni '80. Quello attualmente in vigore è del 2004.
Da 96 anni a questa parte gli statuti – o quantomeno il primo e l’ultimo, che ci sono noti - prevedono che i membri del consiglio di amministrazione dell’asilo siano cinque, di cui tre di nomina comunale. A riprova del fatto che il Comune di Bedero ha sempre avuto parte significativa nella gestione dell’asilo, che di fatto offre al paese da più di un secolo un servizio di grande rilevanza sociale.
Data al 5 marzo 2021, e volge a scadenza tra poco meno di un anno, l’ultima convenzione tra Comune e asilo, nella quale si aggiunge ai cinque componenti del consiglio di amministrazione previsti dallo statuto, un sesto nominato direttamente dal sindaco. Il consiglio attuale, dimissionario, è per due terzi di nomina comunale.
Può darsi che vi sia sproporzione nella rappresentanza e che sia nel frattempo maturata l’esigenza di ridimensionare le varie componenti nel consiglio di amministrazione. Ma credo che sia nell’interesse del paese che il Comune continui ad esserne coinvolto e non abbandoni l’asilo a una gestione privata.
Penso che il Comune, che è stato protagonista della storia dell’asilo, debba continuare a fare la sua parte, almeno finché norma lo consenta.
Le amministrazioni comunali si susseguono, l’asilo resta da più di cent’anni un bene comune.
11 aprile 2025, Laura V.
Jose e Keyla, fresche di cittadinanza: “Ora sogno un viaggio negli Stati Uniti”
Al primo gennaio 2024 gli stranieri residenti a Bedero erano quarantaquattro. Come i vedovi, a essere pignoli. Messi in fila per sei formerebbero sette colonne, col resto di due.
Guardiamole, queste due persone fuori dalle file e dalle colonne, e diamo loro un nome: Joselyn Pilar Llacua Ramos e Keyla Pilar Llacua Ramos.
Come si può intuire sono sorelle, anche se Pilar non è un cognome ma un secondo nome assegnato a entrambe. Potenza della Nostra Signora del Pilar, venerata in tanti Paesi ispanici, tra cui il Perù, da dove vengono Jose e Keyla.
Vengono, ma sarebbe meglio dire vennero, una vita fa.
È il 2010, l'anno dei Mondiali in Sudafrica, vuvuzela e Waka-Waka. Jose ha dieci anni, Keyla dodici. La mamma è già in Italia da un paio d'anni, a lavorare a Gallarate.
Partono e arrivano a Bedero, balcone della Valcuvia, ai piedi del monte Scerrè o Scerè, comunità montana del Piambello.
Il padre diventa badante di don Domenico e factotum di don Stefano, prima di essere assunto a tempo indeterminato in una ditta della zona. La famiglia, da subito inserita nella vita della parrocchia, viene ben accolta. Le ragazze studiano, poi studiano ancora e intanto lavorano.
Resteranno straniere per quattordici anni, perché solo dopo dieci avranno raggiunto i requisiti per richiedere la cittadinanza.
Da qua parte il racconto di Joselyn, davanti a un caffè e a una fetta di dolce alla cannella. “Abbiamo presentato la domanda nel giugno del 2021 - spiega -. Ci avevano detto che sarebbero stati necessari due anni perché la pratica andasse in porto. Poi, però, ci è arrivata una notifica, la data era stata prorogata di un anno”.
L'anno passa e non vola una mosca. Bussano al CAF delle ACLI, che indaga e riferisce: c'è stato un problema ma non si sa quale sia. Non resta che controllare, ogni tanto, una pagina del ministero dell'Interno che dà conto dello stato di avanzamento della pratica. “Fatelo ogni due mesi”, raccomandano, “altrimenti diventa un'ossessione”.
Sono mesi di sospensione. La pratica era stata aperta poco dopo il raggiungimento dei requisiti. Non è un iter semplice: bisogna rintracciare i certificati nel Paese d'origine e produrre traduzioni giurate. Loro riescono con costi limitati grazie a un parente che le aiuta. Hanno anche qualche agevolazione: sono arrivate da piccole e quindi non devono recuperare la fedina penale. Hanno completato due cicli di studi e non devono sostenere l'esame di italiano. Pagano in posta, poco meno di 300 euro. Poi aspettano.
La sospensione finisce nel novembre 2024. Arriva prima la comunicazione del CAF, poi il giorno in cui entrambe escono dalla schiera dei quarantaquattro stranieri e entrano nel gruppone dei circa seicento italiani.
Jose lo racconta con semplicità. “Siamo andati in un Comune a fare il giuramento. Abbiamo letto una frase davanti al sindaco e poi basta. Ci ha letto i documenti, abbiamo controllato tutti i dati e dopo siamo tornati in un secondo momento a fare la carta d'identità”.
Cos'è cambiato da quel giorno? “Sinceramente non sento molto questo cambio, perché alla fine tutto rimane a livello di burocratico”, dice Jose.
Il senso del cambiamento lo avverte, però, guardando sia indietro che avanti.
Gli anni passati sono quelli in cui è stata cittadina solo straniera. Quello che più pesava, racconta, erano i limiti del permesso di soggiorno. Le due sorelle, arrivate da bambine, dovevano rinnovarlo ogni cinque anni e non ogni due. Una procedura “tediosa” la definisce Jose. Bisogna portare i documenti e le buste paga e fare la fila in questura. Rispetto a quelle infinite di Milano, però, le code a Luino sono piccole e gestibili.
Il permesso di soggiorno andava poi portato sempre appresso. “Mio papà ci diceva che se lo avessimo perso saremmo dovuti andare a richiederlo e sarebbe stata una procedura lunga. Quindi avevamo sempre una fotocopia con noi”. Una volta si dimenticano sia l'originale che la fotocopia e vengono fermati dalla polizia in auto. La preoccupazione si scioglie quando se la cavano con un ammonimento.
Altro limite: l'espatrio. Il passaporto peruviano non è “forte” come quello italiano. C'erano limiti ai Paesi visitabili senza visto. Per questo, guardando avanti, il primo desiderio che viene espresso è più poesia che prosa: “Mi piacerebbe viaggiare, andare negli Stati Uniti”, dice con un sorriso che per una volta supera la riservatezza.
Poi c'è la prosa. La cittadinanza apre le porte a lavori pubblici, fatto tutt'altro che marginale per lei, che sta per concludere la facoltà di infermieristica all'università. La sorella, ci spiega, lavora già in una struttura privata.
In una via di mezzo tra la poesia e la prosa c'è la politica. Jose e i suoi familiari hanno sempre seguito quella peruviana, andando a votare al Forum d'Assago alle elezioni politiche. Ora potrà seguire anche quella italiana. “Prima sentivo quello che si diceva sui giornali ma non avevo la necessità di informarmi più approfonditamente, perché tanto, mi dicevo, non devo votare. Ora sento di più la necessità e la responsabilità di informarmi, per le elezioni comunali e nazionali”.
La pratica, per Jose e Keyla, si è sbloccata senza un avvocato, che invece a volte serve. L'iter è stato di tre anni e mezzo. Per come vanno le cose in Italia, dove la proroga di un anno dopo il termine di ventiquattro mesi è la norma, non è un tempo scandaloso. Ma che l'iter non sia una passeggiata lo si capisce dal fatto che i due genitori non hanno ancora presentato la domanda. Troppi alti i costi, perché loro dovrebbero probabilmente tornare in Perù per recuperare molti più documenti.
Così quella della famiglia Llacua Ramos rimane una bella storia di integrazione in una comunità che non l’ha mai tenuta ai margini. Ma è anche una storia conclusa a metà e che lascia aperto almeno un interrogativo: perché sono stati necessari quattordici anni per far passare l'ansia di perdere il permesso di soggiorno a due ragazze arrivate da bambine e che avevano già concluso le scuole medie e le superiori?
28 marzo 2025, Fabrizio P.
Il mio amico Victor è diventato cittadino italiano.
“Cosa cambia?”, mi sono chiesta?
“Niente: cosa dice di una persona, in più o in meno rispetto a quel che già sappiamo, ciò che c’è scritto sul suo documento di identità?”
Ma la sua emozione, che ben traspare dalla sua testimonianza, ha scosso il mio tiepidissimo senso patriottico che mi ha sempre portata a vivere la mia cittadinanza né come un valore né come un disvalore: come una semplice condizione. Mi rendo improvvisamente conto che il mio sdegno per i disastri prodotti dai nazionalismi e dall’ossessione di stabilire confini per poter affermare con forza chi ci sta dentro e chi fuori mi ha fatto forse a tratti dimenticare che la cittadinanza, e soprattutto una cittadinanza come la mia, è, innanzitutto, un privilegio. Questa consapevolezza mi produce quasi fastidio, perché i privilegi non mi sono mai piaciuti, ma riconoscerli è il primo passo per poterli, almeno in parte, redistribuire.
La cittadinanza è la fonte dalla quale discende, oltre che la responsabilità verso certi doveri, la possibilità di esercitare molti dei miei diritti.
Vico è arrivato in Italia per amore e per proseguire i suoi studi in medicina. Ora è medico e presidente della pro loco del paese in cui vive; si prende cura in molte forme del territorio che lo ha accolto e, soprattutto, delle persone che lo abitano.
Contribuisce alla vita della sua comunità molto di più della stragrande maggioranza di coloro che, come anche me, la cittadinanza l’hanno ereditata senza meriti.
In un tempo in cui buona parte del nostro paese si esprime secondo forme di cittadinanza minima, tramite una fruizione quasi consumistica dei diritti e una crescente elusione dei corrispondenti doveri, Vico è stato in questi anni un cittadino attivo nel senso più politico del termine. Ora lo è anche giuridicamente.
Cosa cambia? Tutto, perché la titolarità dei diritti attribuiti dalla cittadinanza e la possibilità di esercitarli sono tra le più complete forme di riconoscimento della dignità civica e politica.
Grazie Vico, per ricordarci che i diritti non vanno mai dati per scontati, che vanno riconosciuti, difesi e onorati.
Sono orgogliosa di essere tua concittadina.
(A proposito, l’8 e il 9 giugno ci sarà il referendum sulla cittadinanza. Andiamo a votare!)
22 marzo 2025, Chiara D.
Il mio viaggio verso la cittadinanza italiana
Ci sono momenti che segnano una svolta nella vita di una persona, e per me uno di questi è stato il giorno in cui ho ricevuto la mail che annunciava la concessione della cittadinanza italiana. Era mattina presto, alle 5:30, quando ho letto quel messaggio. Il cuore ha iniziato a battere forte, un misto di emozione e incredulità mi ha attraversato, ho urlato di gioia e così ho svegliato Eva. Ci siamo abbracciati stretti, senza parlare per qualche secondo, lasciando
che la felicità ci travolgesse. Le mani mi tremavano mentre rileggevo la mail più volte, quasi per assicurarmi che fosse reale. Mi sono fermato un attimo, ho chiuso gli occhi e ho respirato profondamente, lasciando che quella notizia si sedimentasse dentro di me. Quel riconoscimento aveva un significato profondo: ufficializzava un'appartenenza che già sentivo dentro di me da tempo.
Sono in Italia da quasi otto anni, e da subito mi sono impegnato per conoscerne la cultura, la lingua e le tradizioni. Ho vissuto questo percorso come una scoperta, quasi come un innamoramento. Non è stato sempre facile: arrivare in un nuovo paese con una laurea e riuscire a inserirsi nel mondo accademico è una sfida che non si può dare per scontata.
Devo moltissimo a Eva, mia moglie, e alla sua famiglia, che mi hanno accolto con amore e fiducia, trattandomi fin dal primo giorno come uno di loro. Il loro sostegno incondizionato è stato fondamentale per il mio percorso, dandomi la sicurezza e la serenità necessarie per affrontare ogni sfida senza sentirmi mai solo. Ma il mio cammino non sarebbe stato lo stesso senza il supporto di altre persone che hanno creduto in me, come Adriano, che mi ha aiutato nei primi passi verso il riconoscimento del mio titolo di studio.
Uno dei momenti più importanti della mia vita è stato il giorno del mio matrimonio con Eva. Ricordo ancora l’atmosfera di quella giornata, il calore delle persone intorno a noi e la gioia che si respirava nell’aria. Durante la cerimonia, mentre pronunciavo le promesse, ho sentito dentro di me che non stavo solo sposando la donna che amavo, ma anche il suo paese, la sua cultura, la sua famiglia. Uno dei momenti più intensi è stato quando mia madre ha iniziato a piangere: non erano solo lacrime di felicità, ma anche la consapevolezza che suo figlio non sarebbe più tornato a vivere in Bolivia. È stato un giorno di amore e di trasformazione, in cui ho capito definitivamente che l’Italia sarebbe stata per sempre la mia casa.
Dal punto di vista professionale, il mio percorso è stato segnato da due grandi tappe: la laurea in medicina, prima in Bolivia e poi in Italia, e la specializzazione. Entrare nel mondo del lavoro durante la pandemia di Covid-19 è stata una prova dura, ma mi ha dato la fiducia necessaria nelle mie capacità. In questo percorso, un ruolo fondamentale lo ha avuto il Dr. Pizzi, che per me è stato un maestro. È grazie a lui che ho scoperto il mestiere del medico di famiglia come lo immaginavo da bambino, quando sognavo di fare il medico. È stato il mio tutor, e poi ha avuto la fiducia di affidarmi il suo studio e i suoi assistiti, dimostrando una stima profonda verso uno straniero, un gesto che non considero affatto scontato e per cui sarò sempre grato.
Ma la mia crescita in Italia non è stata solo professionale. Nel 2023, insieme ad altri membri della comunità, abbiamo fondato la Pro Loco di Bedero Valcuvia, un progetto che ha rafforzato il mio legame con il paese. La nostra prima iniziativa è stata il concerto di musica in corte, un evento che ha visto la partecipazione di persone di tutte le età, unite dalla passione per la musica e dal desiderio di vivere un momento di aggregazione autentica. È stato incredibile vedere la corte dei Tavi animarsi con la musica dal vivo, le persone sedute fianco a fianco a godersi l'atmosfera, i volontari impegnati nell'organizzazione e i musicisti che hanno regalato a tutti un'esperienza emozionante. Questi momenti hanno dimostrato quanto sia importante avere un punto di riferimento per la comunità, un luogo di incontro e di crescita collettiva. Vedere giovani e meno giovani unire le forze per un obiettivo comune è stata una delle esperienze più gratificanti. Quel momento ha reso tangibile l'importanza del nostro impegno e della collaborazione di tutti. In quel momento ho capito che il nostro impegno stava facendo la differenza, che la Pro Loco non era solo un’idea, ma un punto di riferimento per la comunità. La Pro Loco non è solo un'associazione, ma uno spazio di incontro, un luogo dove chiunque può sentirsi parte di una comunità. Per me, che non frequento la chiesa, mancava un punto di riferimento sociale di questo tipo, perché credo che il senso di appartenenza sia fondamentale per il benessere delle persone, anche se spesso viene sottovalutato.
Bedero Valcuvia è stata la mia casa fin dal primo giorno, prima ancora che potessi chiamarla ufficialmente tale. Ogni volta che tornavamo da Milano, senza rendermene conto, dicevo sempre "siamo arrivati a casa". E lo sentivo davvero: le strade, le persone, l’atmosfera di questo paese mi hanno accolto e dato un senso di appartenenza che va oltre i documenti.
Oggi, con la cittadinanza italiana, non cambia il mio impegno verso la comunità e il mio lavoro, ma sento di poter restituire ancora di più a questo luogo che mi ha dato tanto. Ora posso finalmente partecipare anche alla vita politica del paese, esprimere il mio voto e contribuire in modo più diretto al futuro della società in cui vivo. Per me, questo è un privilegio immenso, soprattutto vedendo quanti giovani italiani, invece, si distaccano dalla politica e rinunciano a un diritto così prezioso. Per me, votare non è solo un dovere civico: è un atto di riconoscenza verso il paese che mi ha accolto.
Guardando al futuro, il mio augurio per Bedero Valcuvia è quello di una comunità sempre più unita, dove le persone possano confrontarsi, crescere insieme e lasciarsi alle spalle vecchie divisioni. Credo che questo possa avvenire attraverso la promozione di momenti di incontro, come dibattiti aperti tra cittadini, laboratori intergenerazionali e progetti condivisi per
valorizzare il territorio. La collaborazione tra le diverse realtà associative e il coinvolgimento attivo di giovani e anziani possono creare un ambiente più inclusivo e solidale. Eventi culturali, iniziative di volontariato e progetti educativi possono essere strumenti fondamentali per costruire una comunità più forte e coesa, dove ogni cittadino possa sentirsi valorizzato e parte di un progetto comune. Una comunità inclusiva, rispettosa delle diversità, che valorizzi chiunque voglia contribuire.
A chi, come me, sta cercando di costruire un futuro in un nuovo paese, vorrei dire: vivete con curiosità, abbiate il coraggio di mettervi in discussione. Solo così si può veramente crescere, aprirsi a nuove esperienze e sentirsi parte di qualcosa di più grande. Perché il mio viaggio, alla fine, è stato proprio questo: un cammino di crescita.
21 marzo 2025, Victor L. E.
Fino al 1919 le donne non avevano la capacità giuridica, non potevano vendere o comprare casa senza la firma del marito o del padre.
Fino al 1946 le donne non potevano votare, né tantomeno candidarsi.
Nel 1958 furono chiuse le case di tolleranza e perseguito il favoreggiamento e lo sfruttamento della prostituzione. Fino a quel momento, cioè all’approvazione della legge Merlin, tutto ciò era legale e socialmente accettato.
Ancora nel 1975 picchiare la moglie non era reato: la legge riconosceva la potestà maritale e vi erano pene miti per il cosiddetto “delitto d’onore”.
Nelle famiglie, la chiave della soggezione femminile era la dipendenza economica dall’uomo. Talvolta lo è ancora.
Coppie di fatto
Bedero, fine ‘800: Teresa venne abbandonata dal marito, che salpò per le Americhe con un’altra. Ma non si diede per vinta. Si innamorò di Gabriele e cercò di rifarsi una vita. Subì la riprovazione e l’isolamento sociale: lei fu definita concubina, i figli della coppia bollati come illegittimi.
Dai registri parrocchiali di inizio ‘900
Ammettiamolo, dà un certo sollievo constatare che la scelta di Teresa oggi verrebbe considerata normale, o quantomeno accettata con meno ostilità.
Femminicidi
Oggi li chiamiamo femminicidi, un tempo si chiamavano delitti d’onore.
A Bedero negli anni ’30 si consumò un omicidio: una donna che veniva dalla val Canobbina, fuggita dalla violenza del marito, riparò a Bedero, dove stavano due delle sue sorelle, una sposata in paese e l’altra impiegata come governante. Fu raggiunta e pagò con la vita la sua disobbedienza, di lei non si parlò più.
Oggi sull’argomento c’è una sensibilità diffusa e una maggior vigilanza sociale.
Violenza domestica
Già l’anno scorso, in occasione dell’8 marzo, raccogliemmo la coraggiosa testimonianza di una donna che, avendo subito a lungo violenza domestica, trovò il coraggio di opporsi fino a chiedere il divorzio, all’indomani dell’approvazione della legge, negli anni ’70. Prima donna divorziata del paese, visse sulla sua pelle lo stigma sociale e il biasimo, ma mai si pentì della sua scelta.
Purtroppo non è ancora sanata la piaga della violenza domestica, che spesso si consuma nascostamente, sotto le apparenze di vite normali, segnate dal ricatto della dipendenza economica delle donne.
Scolarizzazione
Agli inizi del ‘900 la scuola comunale conduceva entrambi i sessi alla licenza elementare.
A cavallo tra Ottocento e Novecento
diplomi uguali per una femmina e un maschio
Negli anni ’30 la situazione era peggiorata. Maschi e femmine frequentavano in paese solo le prime tre classi. Poi i maschi che lo desideravano potevano continuare la scuola a Ganna fino alla licenza, avanti e indietro a piedi. Alle femmine non era permesso, poiché non era decoroso allontanarsi dal paese.
Nel dopoguerra si stabilì l’obbligo scolastico, e in qualche modo, nella grande pluriclasse al primo piano del palazzo comunale di Bedero, maschi e femmine compirono tutti il ciclo dell’obbligo.
Tuttavia fino agli anni ’70 i bambini e le bambine, pur frequentando la mattina la stessa classe, fuori da scuola non giocavano assieme. L’oratorio parrocchiale accettava solo i maschi, mentre per le bambine si apriva una volta la settimana, la domenica pomeriggio dopo il vespro, l’oratorio femminile dalle suore, all’asilo. In famiglia i compiti erano separati.
Oggi l’accesso all’istruzione, anche ai più alti gradi, non è ostacolato dal sesso. Anzi, spesso le femmine sono le più motivate.
L’oratorio accoglie tutti senza distinzione, maschi e femmine.
Doppia morale
Femmine illibate fino al matrimonio, maschi iniziati precocemente al sesso attraverso prestazioni a pagamento. Sono le fonti letterarie ad informarci in merito, poiché in paese di sesso non si parlava. O meglio: le femmine per bene non ne parlavano, mentre la dissertazione sui postriboli, aperti legalmente fino al 1958, fu ampiamente accettata nell’universo maschile. Così come la loro frequentazione.
Nel dopoguerra, il ritorno in paese dei ragazzi dalla guerra e il desiderio di superare i traumi e le sofferenze degli anni precedenti generò un forte impulso vitale, che prese piede anche a Bedero. Spirò nelle giovani donne un desiderio di maggiore libertà.
Anni '40
Maria, Pina, Natalina, Rina
Pare di indovinarlo nelle foto delle belle ragazze bederesi degli anni ’40, che si concedevano di nascosto dalle madri qualche furtiva incursione sulla pista da ballo del Crott.
Il confronto con l’oggi ciascuno lo faccia da sé.
La pista da ballo al Crott
Amministratrici
Seppure avendone diritto fin dal 1946, fino agli anni novanta non ci furono donne nel consiglio comunale. Nel 1990 si candidarono due pioniere, Fernanda Menotti e Danila Pintus. Bisogna arrivare al 1995 per avere tre elette. Di mezzo c’è una sentenza della Corte Costituzionale sulle quote rosa nelle liste elettorali, che aveva sollevato il problema della rappresentanza femminile.
Nel 1995 tre donne entrarono in consiglio: Gianna Elvira Martinoli, Giuseppina Rossotti e Maria Grazia Borsotti. Gianna Elvira ha continuato il suo impegno fino ad oggi, con determinazione e fierezza.
Opuscolo elettorale del 1995
Nel 2009 si presentò per la prima volta una donna, Rossana Sportelli, come candidata per la carica di sindaco. Nei suoi quindici anni di impegno in Comune, Rossana diventò la prima vicesindaca di Bedero. L’anno scorso, presentandosi di nuovo come candidata sindaco, ha perso la contesa per un voto: 198 voti contro 199. Attualmente in carica c’è un’altra vicesindaca, Veronica Marchiori.
Ragazze oggi
Nel corso della storia il ruolo della donna è cambiato radicalmente.
Seppur a volte oscurata e nascosta, la presenza della donna è stata sempre decisiva. Dalle società matriarcali del passato, dove era il centro e la generatrice della vita, passando per la società greca, che la vedeva invece subordinata all’uomo, fino ad oggi: libera, forte e indipendente.
Essere donna è un dono, possiamo dimostrare quanto siamo importanti e quanto valiamo al pari degli altri, in ambito scolastico e lavorativo, grazie a tutte quelle donne che nel passato hanno lottato per arrivare a queste condizioni.
Oramai, in moltissimi paesi, le differenze sul posto di lavoro sono veramente minime, le donne occupano ruoli importanti, anche dirigenziali e hanno la possibilità di arrivarci grazie all’istruzione che oggi gli viene garantita. Nel mondo scolastico non ci sono distinzioni di nessun tipo, le donne sono apprezzate e possono rendersi libere grazie alla cultura. Questa consapevolezza che poi ottengono grazie alla scuola, possono utilizzarla per esprimere opinioni politiche, hanno il diritto di voto e partecipano quindi alla vita pubblica in tutti i suoi aspetti, affermandosi come potenti in moltissimi campi del sapere.
Tutto questo è meraviglioso, straordinario e impensabile fino a pochi anni fa, ma purtroppo non è sempre così. La donna avrà anche acquisito un posto nella società moderna ma ancora è schiacciata dal peso di pregiudizi e formae mentis che sono tutt’ora presenti.
Nel mondo si stima che 736 milioni di donne hanno subito violenze sessuali o fisiche; una su tre. Il femminicidio continua ad avvenire e molti uomini sono convinti ancora che la donna gli appartenga come se fosse un oggetto. Ancora oggi esistono le spose bambine, obbligate a rapporti con uomini molto più grandi di loro e private della loro libertà di gioco, di istruzione, di amore e di felicità. In alcuni paesi donne adulte non possono uscire di casa senza essere accompagnate da un uomo o senza essere completamente coperte. Non possono parlare senza il permesso o avere un'istruzione.
Il problema nel mondo quindi permane: a volte non ci si pensa, non si guarda fuori dal nostro piccolo e non ci si interessa perché non ci riguarda, ma questo non vuol dire che non esista.
I pareri sul privilegio di essere donna sono ancora contrastanti, sicuramente i passi sono stati veramente tanti, ma non si può ancora dire che la parità sia a 360 gradi. Non tutte si sentono sicure a camminare di notte in una strada isolata e non tutte si sentono completamente libere di indossare quello che gli pare, per paura di essere palpeggiate senza il loro consenso. Per questo è necessario lottare e cercare di creare reciproco rispetto, che parta dalle piccole cose fino ad arrivare a temi più importanti, come la violazione di alcuni diritti.
7 marzo 2025, inizia Laura V. e conclude Nina P. M., con l'aiuto di tante amiche